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Breve Storia della Vite in Sicilia

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Breve Storia della Vite in Sicilia

BREVE STORIA DELLA VITE IN SICILIA

di  Luigi Rigazzi

 La vite nel mondo antico  

Siduri,la donna della vigna che faceva il vino.

Siduri,la donna della vigna che faceva il vino.

   Siduri la donna della vigna che faceva il vino[1] – La vite selvatica / vitis sylvestris[2] risulta nota da tempi antichissimi, in particolare presso i popoli mesopotamici, come testimoniano le varie stesure del poema di Gilgameš,[3] databili dal 4500 al 2500 a.e.v. Infatti nel poema si legge: Passeggiando per quel giardino incantato, Gilgameš giunse sulla riva del mare, dove trovò la casa di Siduri, la donna della vigna, colei che faceva il vino. Un’altra importante testimonianza ci viene dal ritrovamento più antico di cui abbiamo conoscenza, un’anfora contenente tracce di vino, trovata in Armenia, risalente al 3500 a.e.v., mentre la coltivazione della vite a Cipro e a Creta è documentata dal terzo millennio a.e.v.

Vite selvatica - Vitis Sylvestris

Vite selvatica – Vitis Sylvestris

 

 

 

 La vite in Sicilia

La storia della vite in Sicilia è antica quanto la storia dei primi ominidi che abitarono l’isola, e si perde nella notte dei tempi, Dalla scoperta archeologica in una grotta sul Monte Kronio (San Calogero) a Sciacca, in provincia di Agrigento, effettuata dall’équipe guidata dal Professore Davide Tanarsi dell’Università della South Florida, risulta che gli abitanti dell’isola conoscessero la vite selvatica ed il vino, come apprendiamo da un articolo pubblicato dal Professore sulla rivista The Conversation, con il titolo: Vino preistorico scoperto in caverne inaccessibili costringono a ripensare alla cultura dell’antica Sicilia.[4]  Questa scoperta porta indietro le lancette dell’orologio e ci fa dire che i primi abitanti dell’isola non solo conoscevano la vite selvatica, che aveva superato tutte le glaciazioni, ma producevano già il vino, prima che in qualsiasi parte dell’Europa e del bacino del Mediterraneo.  La vite cresceva spontanea nell’isola, come si evince da alcuni fossili ritrovati sull’Etna. Agli isolani erano ancora ignote le raffinate tecniche che i Fenici e i Greci già praticavano.

Monete

Monete

I vitigni autoctoni che introdussero furono il Grecanico e il Cataretto, che ancora ai giorni nostri fanno parte del patrimonio vinicolo della Sicilia. Quanto fosse importante la vite in Sicilia è testimoniato anche dalle monete del tempo, in particolare da una moneta d’argento coniata a Naxos vicino a Taormina, tra il 520 e 500 a.e.v., che raffigura su un lato la testa di Dionisio, e sull’altro lato un grappolo d’uva. Durante il dominio dell’Impero Romano, i vini siciliani erano fra i più apprezzati sia dalla corte che dai patrizi romani, in particolare il Mamertino/ Mamertinum che prese il nome dai Mamertini.[5] Il Mamertino è un vino che si ricavava dalla vite Nocera, antichissimo vitigno a bacca rossa importato dai greci sin dall’VIII secolo a.e.v. Era molto apprezzato anche da Giulio Cesare che lo cita nel suo De Bello Gallico.  Altri vini siciliani celebri dell’antichità erano il Potulanum il Tauromenitatum e l’Haluntium. I vini siciliani hanno subito anch’essi la sorte delle vicissitudini che l’isola ha affrontato, con periodi floridi e periodi di crisi. Uno dei momenti più importanti fu segnato dall’arrivo degli Aragonesi (1288 – 1512 e.v.).

Durante la loro dominazione la viticultura siciliana fiorì, portando un grande benessere all’intera regione. Nel XIX secolo la produzione ebbe un altro notevole sviluppo e il commercio del vino era una delle principali fonti di guadagno per gli isolani. Fu durante il XIX secolo che la Sicilia vide fiorire le sue prime grandi cantine che porteranno il vino siciliano in ogni parte del mondo. Le grandi famiglie furono:

  • Duca di Salaparuta dal 1824;
  • Florio dal 1836;
  • Amodeo dal 1837;
  • Rallo dal 1860;
  • Curato Arini dal 1875;
  • Carlo Pellegrino dal 1880;
  • Lombardo dal 1881.

Nel 1881 si verificò uno degli eventi più disastrosi per la coltura delle viti, arrivò il flagello della Fillossera.[6] La devastazione dei vitigni europei si protrasse sino agli anni ’50 del ‘900. Durante questo lungo lasso di tempo il mondo era cambiato e i vini molto alcolici che si producevano in Sicilia che servivano all’industria vinicola del Nord, come la Toscana, il Piemonte  il Veneto e la Francia, non erano più richiesti. Dopo un periodo di assestamento durato una ventina di anni, dagli anni ’70 si capì che bisognava rinnovare tutto il patrimonio vinicolo: furono estirpati i vecchi ceppi, si recuperarono quasi tutte le viti autoctone e si é assistito di recente al fiorire di piccole e medie aziende che in pochi anni hanno conquistato tutti i mercati del mondo, ponendosi ai vertici per qualità e varietà. I più importanti  vitigni autoctoni a bacca bianca recuperati sono:

  • Carricante;
  • Catarratto;
  • Grecanico;
  • Grillo;
  • Inzolia.

Le uve a bacca rossa sono:

  • Frappato;
  • Nerello Cappuccio;
  • Nerello Mascalese;
  • Nero d’Avola;
  • Perricone.

Ma oltre che delle grandi famiglie e della classe dominante, il vino è stato per millenni patrimonio anche del popolo perché lo lavorava, lo accudiva e ne seguiva la trasformazione dal grappolo al mosto sino al prodotto inebriante, e chi ne beveva subiva le conseguenze. Questo ha portato sempre il vino ad essere collegato ad una dimensione magico-religiosa, infatti in diversi paesi siciliani il rito della raccolta e trasporto dell’uva dalla vigna al palmento[7] era accompagnato da strumenti musicali, come la brogna / tromba di conchiglia, il flauto di canna, la ciaramedda / zampogna. Il corteo era guidato dal ciarammiddaru / il suonatore di zampogna, che scandiva il percorso con canti e balli.[8] Perciò possiamo affermare che il vino ha accompagnato da sempre la storia degli abitanti della Sicilia, arricchendosi delle conoscenze importate dai vari popoli che si sono succeduti. Ora andremo alla scoperta dei più importanti vini liquorosi da meditazione che la Sicilia produce e che hanno conquistato i palati di tutto il mondo, vincendo una concorrenza spietata come quella dei vini liquorosi che si producono in tutto il bacino del Mediterraneo, in particolar modo nella penisola Iberica.

I vini da meditazione 

Il termine vini da meditazione fu coniato agli inizi degli anni ’70 dal grande enologo Luigi Veronelli,[9] per distinguerli dai molteplici vini da tavola. Vengono serviti a fine pasto o con il dessert. L’Italia è forse la nazione che, dalle Alpi alla Sicilia, vanta il più alto numero di vini da meditazione, infatti troviamo: il Picolit dei Colli Orientali in Friuli, il Vin Santo del Chianti,  l’Erbaluce di Caluso passito in Piemonte, il Vin Santo in Trentino, lo Sciacchetrà delle Cinque Terre in Liguria, l’Aleatico Passito dell’Elba, il Malvasia di Bosa, il Cannonau e la Vernaccia di Oristano in Sardegna, ecc.ecc.

 Il Simposio –  Il rito del consumo del vino da meditazione di oggi, per gli antichi romani e greci era il Simposio, una pratica conviviale che veniva subito dopo il convivium / banchetto. Durante il simposio si seguivano le prescrizioni del simposiarca.[10] Il simposio era il luogo ideale deputato alla declamazione poetica e al canto. Omero ne da una bellissima descrizione nel libro IX dell’Odissea ai vv. 1/10:[11]

Scena di Simposio dalla Tomba del tuffatore  a Paestum.

Scena di Simposio dalla Tomba del tuffatore
a Paestum.

Alcinoo Rege, che ai mortali tutti

Di grandezza, e di gloria innanzi vai,
Bello è l’udir, gli replicava Ulisse,
Cantor, come Demodoco, di cui
Pari a quella d’un Dio suona la voce:
Nè spettacol più grato havvi, che quando
Tutta una gente si dissolve in gioja,
Quando alla mensa, che il cantor rallegra,
Molti siedono in ordine, e le lanci / Colme di cibo son, di vino l’urne, /  Donde coppier nell’auree tazze il versi, / E ai convitati assisi il porga in giro.

Un’altra bellissima ode ci è pervenuta da Pindaro (480 a.e.v.), nelle Istmiche VI ai vv 1.2-9:

Come quando tra i convitati sboccia la gioia del simposio / mescoliamo un secondo cratere di canti ispirati dalle Muse…/ Voglia il cielo che un giorno noi possiamo offrire / un terzo cratere al Dio dell’Olimpo a Zeus Salvatore, / e diffondere su Egina la libagione dei nostri canti dolci come il miele.

Ora andiamo alla scoperta di alcuni vini liquorosi passiti siciliani, considerati fra le eccellenze della viticultura dell’isola. Partiremo dal più antico arrivato sino ai giorni nostri.

 NOTE DELLA PRIMA PARTE:

[1] Gilgameš e Siduri, disegno di Thom Kapleim, 1999.

[2] La vitis sylvestris cresce spontanea sui suoli alluvionali, lungo le rive dei corsi d’acqua, ai margini dei boschi e lungo le siepi dei campi.

[3] L’Epopea di Gilgameš è un ciclo epico di ambientazione sumerica, scritto in caratteri cuneiformi su tavolette d’argilla, che risale a circa 4500 anni fa tra il 2600 e il 2500 a.e.v. Esistono sei versioni conosciute di poemi che narrano le gesta di Gilgameš, re sumero di Uruk, nipote di Enmerkar e figlio di Lugalbanda. La versione più conosciuta, la cosiddetta Epopea di Gilgameš, è babilonese.

[4] Il vino più vecchio é siciliano e ha 6mila anni, http://www.repubblica.it/scienze/2017/08/26/news/il_vino_piu_vecchio_e_siciliano-174222076/

[5] Mamertini, figli di Mamerte, che corrispondeva al latino Marte dio della guerra, erano  soldati mercenari, che combatterono nella prima guerra punica. Il termine indicò anche gli abitanti di Messina e i loro prodotti venivano chiamati mamertini, come il vino Mamertino.

[6] La Fillossera è un insetto della famiglia dei Phyloxeridae. E’ un fitofago associato alla specie del genere Vitis che attacca le radici delle specie europee e l’apparato aereo di quelle americane.

[7] Il palmento è il luogo in cui avveniva la pigiatura dell’uva per produrre il mosto, utilizzato sin dall’età ellenistica, sino ai nostri giorni.

(8) Antonino Fredda, Il vino in Sicilia tra storia e tradizione,            http://www.metesiculiana.org/2013/08/il-vino-in-sicilia-tra-storia-e.htm

[9] Luigi Veronelli, 1926 / 2004, è stato  filosofo, giornalista, scrittore, gastronomo, editore. E’ considerato il padre della valorizzazione e della diffusione del patrimonio gastronomico italiano.

[10] Il Simposiarca nel mondo greco-romano era la persona deputata a presiedere il simposio, veniva scelto sorteggiandolo ai dadi.

[11] Omero, Odissea, canto IX vv. 1,10, https://it.wikisource.org/wiki/Odissea_(Pindemonte)/Libro_IX

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SECONDA PARTE: I VINI PASSITI SICILIANI

Grappoli ad appassire

I vini passiti vengono quasi sempre catalogati tra i vini speciali, ma da un punto di vista normativo sono considerati vini normali, in quanto dopo il processo di vinificazione e prima di essere immessi sul mercato non vengono sottoposti a ulteriori interventi tecnici o all’aggiunta di altri componenti. Infatti i vini passiti sono prodotti utilizzando le stesse tecniche di vinificazione impiegate per i vini normali, con la sola differenza che le uve, prima di essere vinificate, vengono sottoposte per un periodo di tempo più o meno lungo ad appassimento, cioè ad una riduzione o eliminazione dell’acqua (disidratazione) presente nell’acino. Lo scopo di tale procedimento è quello di sottoporre l’uva a sovramaturazione al fine di concentrare nella bacca numerosi composti, quali: zuccheri, acidi organici, sali minerali e profumi.grappoli-ad-appassire

I vini che si ottengono in seguito a questo processo sono detti passiti e sono solitamente caratterizzati da uno spiccato contenuto alcolico e da un residuo zuccherino più o meno elevato. L’appassimento naturale consiste nel lasciare ulteriormente i grappoli sulla pianta, ottenendo un fenomeno di concentrazione di sostanze contenute nella polpa, fortemente accentuato rispetto alla vendemmia tardiva. Da notare che esiste una differenza (nell’ambito dei vini da sovramaturazione) tra vendemmia tardiva e passito: in termini molto semplici, il primo è un vino poco passito, il secondo è il passito classico. Alcuni disciplinari (italiani ed esteri) prevedono la vendemmia tardiva, altri il passito. Un ulteriore sistema per ottenere i vini passiti è quello della estrazione a freddo, consistente nel lasciare le uve appena raccolte ad alcuni gradi sotto zero per una notte e pressarle immediatamente dopo; poiché a temperature appena al di sotto dello zero congelano solo gli acini meno maturi (che contengono più acqua), il mosto che si ottiene sarà ricavato solo da quelli più maturi, quindi più ricchi di zuccheri.

Il Moscato Pollio di Siracusa

Del Moscato Pollio di Siracusa, all’inizio degli anni ’50 si erano perse le tracce per l’abbandono delle campagne, perché tutti accorsero a lavorare al mega impianto petrolchimico di Priolo. Esodo che stravolse il tessuto sociale di tutta la provincia di Siracusa. Il recupero e la valorizzazione del Moscato di Siracusa si deve alla fine degli anni ’70 all’opera di Antonino Pupillo, Il quale si dedicò al recupero dei ceppi di viti autoctone del moscato di Siracusa, e fece pubblicare a sue spese un trattato scritto da Saverio Landolina Nava,[1]che fu Regio Custode delle Antichità del Val di Noto e Val Demone, dove il grande erudito siciliano racconta la sua storia dell’antico Vino Pollio Siracusano, di come si otteneva da uve della vite Biblia, originaria dei Monti Biblini,[2]portata a Siracusa dal mitico tiranno Pollis argivo la cui esistenza non è certa. Scrive il 4 gennaio 1802 il Landolina Nava al Canonico Andrea Zucchini corrispondente dell’Accademia dei Gergofili di Firenze:[3]  § 3. Le mie ricerche per dare la vera traduzione degli autori greci mi facilitarono la via a riconoscere che il nome di vino Pollio fù dato in Siracusa a quello stesso altrove chiamato Biblino, che non era disgustoso a bere, né debole come molti hanno opinato, ma dolce e spiritoso: confermandomi in questa credenza l’epiteto ainopa costantemente dato da Omero alli eccellenti vini; giacché una tale voce non può affatto esprimerci il colore rosso, o nero del vino, ma solamente la generosità di esso, siccome mi è riuscito chiaramente a lungo dimostrarlo.

Uva Moscato siracusano

Uva Moscato siracusano

Perciò, se così fosse, le sue origini risalirebbero all’ VIII-VII secolo a.C., e il Moscato di Siracusa potrebbe essere considerato il vino più antico d’Italia. Come abbiamo visto, la storia dell’origine del Moscato di Siracusa si perde nella notte dei tempi e si fa risalire sino all’inizio della fondazione di Siracusa nel 734 a.e.v. per opera di coloni greci guidati da Archia[4] assieme al poeta Eumelo di Corinto.[5] La città era formata da cinque quartieri-città, da cui l’appellativo di Pentapoli. Qui il vitigno trovò il territorio ideale, fornendo un prodotto eccellente. Ancora oggi, seppur in quantità ridotte, questo vino viene prodotto nel territorio comunale di Siracusa con uve di Moscato Bianco sottoposte ad un leggero appassimento.

 Origine del nome

Secondo una leggenda, uno dei servi di Falaride, tiranno di Sicilia, messo a guardia di filari di vite dai grappoli succosi e dolcissimi destinati alla figlia cieca dello stesso tiranno, stremato dalla calura e dalla stanchezza, si addormentò, venendo meno al compito di scacciare le mosche. Al suo risveglio scoprì che gli acini erano stati punti dagli insetti ma per sua fortuna la figlia del tiranno trovò l’uva molto più buona del solito e interpretò il sonno come il volere dalla dea Demetra, affinché gli insetti addolcissero l’uva su ogni acino e lasciassero il loro segno inconfondibile. Qualunque sia l’origine del nome, quella del vino moscato è una storia che affonda le proprie radici non solo nella terra siciliana ma anche nelle pieghe della storia umana di un’isola crocevia di molte culture. I vini Moscati venivano infatti chiamati con i nomi più disparati: Sticha, Stico, Melampsithia e Psithia presso i Greci; Sticula, Vennucolo o Scripula presso i Romani. I greci chiamavano quest’uva anathelicon moschaton, Plinio il Vecchio uva apiana. Omero e Esiodo scrissero del Moscato Pollio di Siracusa: dolce, gentilmente profumato e più soave. Era considerato uno dei vini più importanti e perfetti per il Simposio,  infatti a differenza di tutti gli altri vini che dovevano essere diluiti con acqua, miele e spezie, il Moscato di Siracusa era perfetto per bere in compagnia e meditare. Si pensa che il Moscato Pollio di Siracusa sia ancora oggi come lo bevevano gli antichi.

Federico II

Federico II

Federico II

Lunga è la storia dei suoi estimatori, tra i più famosi troviamo Federico II, affascinato dalla città di Siracusa, ove costruì uno dei suoi castelli, il Solacium (il suo Palatium, costruito all’inizio del XIII secolo: un tranquillo rifugio per occupare il tempo tra gli svaghi e la passione venatoria). La presenza del Moscato nella Sicilia orientale è stata peraltro documentata anche con il ritrovamento, presso la grotta di Sbirulia (a pochi chilometri da Noto), di anfore e vasi. Le scoperte dell’archeologo Santocono Russo[6] testimoniano della coltivazione del vitigno fin dal 200 a.ev.; si trattava di un vino moscato dalle grandi qualità, apprezzato e identificato da Catone con il termine Apicia o Apianae (per indicarne la predilezione da parte delle api), e chiamato nel Medioevo Moscatello. Il termine Moscato iniziò a prendere piede solo attraverso i secoli e viene menzionato nel XVII secolo. Il Moscato di Siracusa definito sin da allora,  e non a sproposito, Il Nettare degli Dei, trova costanti citazioni di elogio in tutti i periodi fino ai giorni nostri, dagli antichi storici dell’epoca ad Albert Jouvin de Rochefort[7] nel suo Grand Tour; da Giovanni Verga [8]che faceva bere ai suoi personaggi  il buon moscato di Siracusa,  ad Alexandre Dumas[9] che ne Il grande dizionario della cucina lo colloca tra i crus più famosi nel paragrafo dei Vini liquorosi stranieri. Nell’Ottocento si conoscevano ben 80 diverse varietà di uve Moscato e tale varietà suscitò il forte interesse degli studiosi, che si dedicarono allo studio delle origini del vitigno. Oggi si individuano 3 famiglie di uve Moscato: il Moscato Bianco, originario della Grecia, diffuso in tutto il Mediterraneo, da ricondurre alle uve Anathelicon moschaton e Apianae, rispettivamente dei Greci e dei Romani. Considerato il vigneto d’Italia, la Sicilia regala moltissime perle di qualità nel campo enologico offrendo ai propri visitatori vere e proprie avventure all’aria aperta. Perché scoprire il Moscato equivale in effetti a una vera e propria avventura, da vivere al contatto con la terra e con i profumi della provincia siracusana. Il Moscato DOC è un vino di difficile coltivazione, prodotto in piccole quantità annuali. La tradizione vitivinicola dell’area sud-orientale della Sicilia è ben viva nella memoria della gente del luogo, per cui la coltivazione della vite è stata per lungo tempo l’attività agricola prevalente. Il territorio di Pachino ha svolto per parecchi anni il ruolo di centro di produzione di mosti e vini prevalentemente impiegati per il taglio di vini più blasonati, acquistati dal nord Italia e dalla Francia in grandi quantità. Diverse aziende vinicole negli ultimi decenni si sono poste come obbiettivo di riqualificare una zona che oggi è centro di grande interesse e di valorizzazione sotto il profilo commerciale, grazie a caratteristiche pedoclimatiche tali da permettere di ottenere vini di grande pregio. L’attenzione è stata rivolta alla cura del territorio, per questo si è scelto di usare esclusivamente prodotti naturali che seguono i principi dell’agricoltura biodinamica, per aiutare la vigna a trovare e mantenere l’equilibrio in sintonia con la natura e per far esprimere finalmente al vino la profondità del carattere della propria terra. Il Moscato di Siracusa si produce nella Sicilia orientale, nei comuni di Noto, Rosolini, Pachino e Avola. E’ ottenuto con le uve di Moscato bianco, localmente denominato Moscato giallo o Moscatella, e, in base al disciplinare, può essere naturale, spumante e liquoroso. Il riconoscimento della Doc risale al 1974 (GU n. 199/74) e il Moscato di Siracusa assieme ai moscati di Noto, Pachino, Rosolini e all’Eloro rosso, rientra nel Consorzio tutela vini del Siracusano.

Tecnica di vinificazione: Appassimento delle uve su graticci posti al sole, fermentazione a temperatura controllata. Affinamento: In vasca d’acciaio fino al momento dell’imbottigliamento. Modo di conservazione: bottiglia in posizione orizzontale a temperatura di cantina di 11-14°C con umidità del 65% –Temperatura di servizio: 10°C Grado alcolico: 12% vol.

Scheda degustazione: Colore:  giallo dorato –  Olfatto: coinvolgente aromaticità fruttato (pera, buccia di arancia, dattero) – Gusto: aroma di moscato, con sentori di miele, frutta secca e candita, intenso ed aromatico – Abbinamenti:  paste di mandorla pistacchi noci Siciliane e dolci con ricotta.

Le caratteristiche organolettiche indicate rappresentano quelle del disciplinare delle DOC Italia. In realtà il colore tipico del Moscato di Siracusa è giallo paglierino carico.

 Il Passito di Noto

 Da uno dei più antichi vitigni del mondo, il Nero d’Avola, uva non aromatica ma che ha una forza e una struttura tutta sua, nasce il Passito di Noto: la dolcezza dei suoi chicchi dipende dal farli appassire lentamente, per ricavare l’inaspettata morbidezza. Il passito è un vino antichissimo che diviene attuale con un moderno sistema di appassimento. Dai profumi esplosivi di frutta esotica, di gelsomino, di agrumi canditi, è al tempo stesso complesso ma facile da amare. Il compagno ideale della grande tradizione siciliana di dolci e gelati. Il Passito di Noto è un vino dolce come l’uva appassita al sole della Sicilia, nero come un tizzone, viene prodotto con uve di Nero d’Avola, stramature, ottenuto con le stesse tecniche di vinificazione dei grandi passiti. Il Passito di Noto, come recita il nome, si ottiene da uve passite o sulla pianta o dopo la vendemmia. La denominazione di origine controllata Noto è riservata ai vini che rispondono alle condizioni e ai requisiti stabiliti dal disciplinare di produzione per diversi vini tra cui il Passito di Noto. La zona di produzione di detti vini comprende il territorio dei comuni di Noto, Rosolini, Pachino, Avola, tutti in provincia di Siracusa. La denominazione Doc Noto è legata a fattori umani legati al territorio dove si producono questi vini. La vasta zona di produzione della Doc Noto, appartiene ad una antichissima tradizione vitinicola. La produzione di vini risale all’epoca lontanissima della colonizzazione greca della Sicilia orientale. Già la città di Pachino fondata nel 1760 fa derivare il suo nome da due parole greche pachis / abbondante e oinos / vino. Gabriele Castelli, principe di Torremuzza,[10] nella sua opera Siciliae veteres nummi, Panormi, 1781, pubblica il disegno di una moneta della città bizantina di Abolla / Avola, nella quale su una faccia è raffigurato un grosso grappolo d’uva pieno di acini, a testimoniare della vocazione della zona alla coltivazione della vite. Sin dal ‘700 i vini della zona di Avola erano rinomati come testimoniano i racconti dei visitatori stranieri che in quel secolo visitarono la Sicilia.

 Lo Zibibbo     

Scena della tomba di Nakht

Scena della tomba di Nakht

Lo zibibbo da oltre tremila anni delizia i palati di chi lo ama e lo apprezza. Il vitigno è originario dall’Egitto, infatti è anche conosciuto come Muscat di Alessandria. Furono i Fenici a portarlo in Sicilia, gli arabi lo importarono nei Pirenei spagnoli e francesi. L’uva Zibibbo è un’uva da moscato, per i romani apparteneva al ceppo della Vitis Apiana, perché gradita alle api.

Il termine zibibbo deriva dall’arabo zabīb, che significa uva passa. Sappiamo che in Egitto le prime tracce della coltivazione della vite si hanno a partire dal terzo millennio a.e.v, infatti al Museo dell’Orto Botanico di Berlino sono conservati i semi di vitis vinifera, datati 2900 a.e.v.. E che la vite fosse coltivata e lavorata già durante il periodo di Naqada,[12] lo apprendiamo da alcune pitture risalenti alla XVIII dinastia (1543 / 1292 a.e.v.), della tomba di Nakht. Orazio[13] in una delle sue Odi cita il vino mareotico che si produceva ad Alessandria sulle rive del lago Mareotide, molto apprezzato sia in Egitto che a Roma, legandolo in tono dispregiativo alla morte di Cleopatra:…il suo delirio che il vino mareotico acuiva (mentemque lynphatam mareatico).[14]

 Coltivazione della vite ad alberello

cordone-speronatoIl 26 novembre 2014 l’UNESCO, in una riunione tenuta a Parigi, ha dichiarato Patrimonio dell’Umanità la coltivazione ad alberello della vite dello Zibibbo, praticata a Pantelleria. Lo zibibbo come lo conosciamo oggi è frutto della casualità o come dicono gli inglesi per serendipity, cioè avere la fortuna di fare una felice scoperta, che è quello che accadde ai viticultori di Pantelleria. Avendo avuto molta difficoltà a commercializzare il loro prodotto, il vino moscato da tavola, si trovarono con grandi quantità di vino invenduto, dal quale lasciato ad invecchiare e ritrattato con del mosto ottennero il famoso vino zibibbo, più apprezzato del semplice moscato da tavola. Prima di passare al passito di Pantelleria, val la pena di offrire qualche nota introduttiva ai luoghi in cui esso è legato.

Pantelleria  la Venere Nera 

Coltivazione della vite ad alberello.

Coltivazione della vite ad alberello.

   Pantelleria,  Pantiddirìa in siciliano, è un’isola piccola di origine vulcanica, posta a settanta chilometri da Ra’s Mustafà (conosciuta anche come Bordj Kelibia) sulle coste tunisine, e a centodieci dalle coste italiane. L’ultima attività eruttiva di notevole importanza risale al 1831 e si verificò a circa 4 Km dell’attuale porto di Pantelleria. L’isola è ricchissima di fumarole,[15] le più importanti delle quali sono: Favara Grande, Grotta del Bagno Asciutto, Fossa della Pernice, Cuddia di Mida, e di numerose sorgenti di acque calde: Bagno dell’Acqua, Porto di Scauri, Nicà, Punta S. Gaetano e Gadir. Dagli studi dei reperti archeologici non si può affermare che l’isola abbia avuto una sua popolazione autoctona, ma che ha ospitato di volta in volta i popoli del Mediterraneo che hanno incrociato la sua rotta. E’ certo che l’Isola fu abitata sin dal neolitico (12.000 a.e.v. / 10.000 a.e.v.).[16]

Sese gigante

Sese gigante

I ‎resti archeologici pervenutici ci attestano i Sesioti,[17] popolazione di cui non si conosce la provenienza, ma che si pensa siano arrivati dalle coste africane muovendo dalla Siria o dall’Anatolia, probabilmente attratti dai numerosi giacimenti di ossidiana,[18] una delle merci più ricercate e apprezzate sin dall’antichità, considerata alla stessa stregua dell’oro, infatti era chiamato l’oro nero, serviva per la fabbricazione di armi e strumenti da taglio. Di questo popolo sull’isola sono state rinvenute oltre cinquanta costruzioni megalitiche in pietra, hanno tutte una struttura circolare, la più grande è chiamata Sese gigante. Dopo la scomparsa dei Sesioti, Omero fa transitare il suo eroe Ulisse dall’isola dove dimorava la bellissima Calipso, che così descrive: …in mezzo al mare, in un’isola, ov’è l’umbilico del ponto: Fitta è quell’isola d’alberi, e quivi una diva soggiorna[19].

Nel IX secolo a.e.v. arrivarono i Fenici che fondarono la colonia di Cossyra e introdussero nell’isola la vite, e chiamarono l’isola Yrnm / Isola degli uccelli starnazzanti. Pantelleria in seguito fu occupata da greci, romani, cartaginesi, bizantini, arabi, normanni ecc. ecc. Tra questi a lasciare una impronta indelebile sono stati gli arabi che l’hanno posseduta dal 853 al 1123 e.v.. Introdussero la coltivazione del cotone, dell’ulivo e dell’uva zibibbo e la chiamarono Ben El Riah / Figlia del vento. Dal 1998 fa parte della Riserva Naturale Orientata Isola di Pantelleria.

Il Lago di Venere di Pantelleria

Il Lago di Venere di Pantelleria

Il Lago di Venere[20] Pantelleria è conosciuta anche con l’appellativo di Venere Nera, dovuto alla presenza di un lago vulcanico alimentato dalle piogge e da sorgenti naturali, che raggiungono temperature dai 40° ai 50° C. Sorge all’interno del cratere di un antichissimo vulcano, in località Bugeber, nella parte a Nord dell’isola. E’ una sorgente termale naturale. Il lago è circondato da un’antica leggenda mitologica: per gli antichi abitanti era il luogo dove Venere, la dea dell’amore e della bellezza, si specchiava prima degli incontri d’amore con  Bacco / Dionisio.[21] Sempre secondo la mitologia in questo lago si amarono Cupido / Eros[22] e la bellissima Psiche / Anima.[23]

Dammusi

Dammusi

 I Dammusi – Gli arabi la chiamarono anche Al-Qusayra / La Piccolina.  La trasformarono in un immenso giardino, costruendo dei giardini circolari circondati da alti muri di pietra lavica, chiamati in siciliano Giardini arabi. Al loro interno venivano coltivati sia alberi da frutto come arance, limoni e mandarini sia anche la vite ad alberello, gli alti muri proteggevano le colture dai forti venti che soffiano sull’isola. Costruirono anche le abitazioni, i famosi dammusi[24], dall’arabo dms / carbone o cenere riferito al colore della pietra lavica. I dammusi all’interno hanno le stanze abitative, i magazzini, le cantine, i pozzi sotterranei per la raccolta e conservazione dell’acqua, e le stalle per gli animali.

La coltura dello Zibibbo

 Ancora oggi dopo molti secoli i panteschi continuano a chiamare la loro uva zibibbo, e continuano a coltivare la vite con le stesse tecniche portate dagli arabi. Questo vale sia per la coltivazione, sia per l’essiccazione dell’uva e produzione del vino zibibbo.  Il vitigno ancora oggi è lo zibibbo o moscato d’Alessandria. Il sistema di coltivazione atterrazzato fu  importato anch’esso dagli arabi. Oggi viene usato un nuovo metodo detto a  cordone speronato.[25]

Giardini arabi di Pantelleria

Giardini arabi di Pantelleria

Le caratteristiche del vitigno sono: foglia media, grappolo voluminoso, acino grosso con buccia spessa di colore verde/giallo. Con l’uva zibibbo si ottiene un vino da tavola di pronta consumazione o con l’essiccazione si ottiene lo zibibbo. Con l’uva zibibbo si ottengono diversi vini importanti:

  • Moscato di Pantelleria;
  • Moscato passito di Pantelleria;
  • Pantelleria Moscato spumante;
  • Pantelleria Passito liquoroso;
  • Pantelleria Zibibbo dolce;
  • Erice passito;
  • Erice spumante;
  • Erice vendemmia tardiva Zibibbo.

 La maturazione dell’uva zibibbo è tardiva. A noi interessa

la versione passita, quella che ha reso celebre l’isola di Pantelleria. 

 La raccolta – I Pantesi effettuano la raccolta dell’uva zibibbo esclusivamente a mano. La raccolta inizia a metà agosto. L’appassimento – L’uva raccolta viene posta su degli stenditoi, ben soleggiati e areati, i grappoli vengono girati più volte per ottenere un appassimento omogeneo. Dopo circa quattro settimane l’uva ha perso il 75% del suo peso, mentre la concentrazione zuccherina è misurata dal 25 al 55%. La fermentazione – L’uva appassita viene immersa in un mosto di un’altra vendemmia. Questa immersione re-idrata l’acino essiccato, il quale rilascia nel mosto tutti gli zuccheri presenti. Dopo un mese viene arrestata la fermentazione portando la temperatura del mosto a 4- 5° C. – La torchiatura -Dopo due mesi si effettua la torchiatura. L’affinamento – Dopo la torchiatura l’affinamento dura dai quindici ai diciotto mesi fino all’imbottigliamento del mosto, poi altri sei mesi, dopo i quali si può mettere in commercio.[26]

 La successione di queste fasi per ottenere il Passito di Pantelleria ha una storia millenaria, come apprendiamo da una relazione del generale cartaginese Magone che nel 200 a.e.v. scriveva: Si raccoglievano i grappoli maturi, avendo cura di eliminare i grappoli guasti, poi si esponevano al sole su una canna (gli essiccatoi n.d.a.) cercando di proteggerla dalla rugiada, coprendoli durante le ore della notte. Quando i grappoli erano diventati secchi si staccavano gli acini in una giara ricoprendoli di mosto (fermentazione n.d.a.).  Dopo sei giorni si preparavano e si spremevano e si raccoglieva il liquido (la torchiatura n.d.a.). Ultimata questa operazione, si pigiava la vinaccia aggiungendovi del fresco fatto con altra uva tenuta al sole per tre giorni. Infine si sigillava il vino in vasi di creta, da aprirsi dopo una fermentazione di venti, trenta giorni (l’affinamento n.d.a.).[27]

 Il Vino Marsala

Il vino Marsala è una delle eccellenze della Sicilia. E’ prodotto a Marsala e in quasi tutta la provincia di Trapani. Qui la tradizione vinaria ha radici molto antiche: la produzione del vino è testimoniata dal VI secolo a.e.v., infatti sono state trovate a Mozia, antica colonia fenicia, anfore per il trasporto del vino.

Marsala, Metodo Soleras.

Marsala, Metodo Soleras.

E’ opinione comune che la coltura della vite in Sicilia l’abbiano portata i Greci, ma da studi recenti è dimostrato che la vite selvatica era conosciuta dal popolo Sicano,[28] che abitava questi territori oltre cinquemila anni fa. E’ quasi certo che furono i Cretesi, nel XV secolo a.e.v. ad introdurre la coltura della vite domestica. I Greci furono senz’altro quelli che importarono nell’isola metodi nuovi per la coltivazione e produzione del vino. Riuscivano ad ottenere vini corposi densi di aromi e molto alcolici, che esportavano in tutto il bacino del Mediterraneo. Il marsala è un vino che discende da questa antica tradizione e fu presto conosciuto anche dai romani, ma deve la sua grande fortuna all’imprenditore tessile inglese John Woodhouse. Questi nel  1773, mentre era in viaggio con la sua nave Elizabeth, dall’Inghilterra a Mazzara del Vallo, per caricare ceneri di soda, fu costretto da  una tempesta a trovare riparo nei pressi di Marsala. Alloggiato in una taverna del porto, ebbe così l’opportunità di assaggiare questo prezioso nettare, perché gli fu offerto il migliore vino che i contadini del luogo tenevano per le grandi occasioni: il perpetuum. Vino robusto e maturo, veniva invecchiato in botti di legno pregiato. Dopo un lungo periodo di invecchiamento se ne prelevava una modica quantità che veniva rimpiazzata con del vino giovane. Questa operazione veniva ripetuta dopo diversi anni e più volte  ancora: il tempo amalgamava questi vini di età diversa, sicché il procedimento era detto in perpetuo / perpetuum. Questa maniera di vinificare era applicata anche da Portoghesi e Spagnoli, con una particolarità, che la miscelazione avveniva con le botti sovrapposte le une alle altre. Dalla botte vicina al suolo (suelo) si prelevava una certa quantità e dalle botti sovrastanti, chiamate criadera, per caduta si ricolmava la botte vicina al suolo, secondo un metodo quasi identico a quello che in Emilia usano per l’aceto balsamico. Questa tecnica nota col nome di soleras, fu utilizzata da Woodhousse nella sua azienda per la produzione del Marsala. Il commerciante intuisce da subito l’importanza commerciale che questo tipo di vino può avere in Inghilterra, dove da tempo sono apprezzati il Porto il Madeira e lo Sherry.etichetta-marsala

 Woodhouse  ne comprò una cinquantina di botticelle per circa 420 litri. Per non farlo rovinare durante il lungo viaggio, lo fece addizionare con dell’alcool etilico, ma c’è chi dice che usò del Whisky. Il successo che il Marsala riscontrò in Inghilterra dopo questo suo primo viaggio si deve anche al fatto che non erano più reperibili i vini portoghesi e spagnoli  per il blocco effettuato da Napoleone. Woodhouse, da buon commerciante, prende al volo l’occasione e ritorna in Sicilia per avviare una sua produzione e commercializzazione del Marsala. Acquista dei vigneti in territorio di Petrosino[29] e  in contrada Baronazzo Amafi (TP), dove inizia la produzione del Marsala, imbottigliandolo e commercializzandolo con la sua etichetta. Per il Marsala fu un enorme successo, conquistò il favore dei sudditi di Sua Maestà, spodestando dal mercato inglese i vini spagnoli e portoghesi. E’ stato reperito il primo contratto datato 19 marzo 1800, a firma dell’ammiraglio  Horatio Nelson e John Woodhouse, per la fornitura alla flotta di sua Maestà Britannica di una enorme quantità di Marsala da consegnare nella rada di Malta. Da allora il Marsala è arrivato anche nelle cantine di Buckingham Palace, perché considerato da Nelson “vino degno della mensa di qualsiasi gentiluomo”.[30] Il territorio di Petrosino, che sino all’arrivo di Woodhouse era una zona incolta e disabitata, fu trasformato in  una zona fertile e rigogliosa.

 Portale del baglio Woodhouse

Portale del baglio Woodhouse

 Nel 1813 inizia la costruzione del baglio[31] Woodhouse, dove oltre al Marsala vennero prodotti vini eccellenti, come il Solaris e il Waterloo. Dell’antico baglio sono rimasti in piedi soltanto il bellissimo portale d’ingresso e dei ruderi, che i nativi del luogo chiamano “u bagghiu gnisi”. Si deve agli inglesi, che col tempo migliorarono le tecniche di produzione, se ancora oggi il Marsala è apprezzato in tutto il mondo. Un grande impulso alla fortuna del Marsala è stato dato anche da un importante imprenditore italiano, Vincenzo Florio,[32] un commerciante di tonno di Marsala. Avendo deciso di dedicarsi alla produzione del vino Marsala, egli costruì il baglio della famiglia Florio, e in brevissimo tempo diventò uno dei più grandi produttori di Marsala, esportandolo con la sua flotta, forte di 99 navi, in qualsiasi parte del mondo. Il Marsala è stato il primo vino italiano a potersi fregiare sin dal 1969 della denominazione di origine controllata (DOC). Oggi il Marsala si produce con le uve dei vitigni a bacca bianca: Grillo, Grecanico, Inzolia, Cataratto e Damaschino, e dei vitigni a bacca rossa: Pignatello, Calabrese, Nerello Mascalese e Nero d’Avola. È consentita l’aggiunta di alcool etilico o acquavite di vino e mosto cotto. Si conoscono circa 45 varietà di Marsala.  In base all’invecchiamento e alla gradazione alcolica, si ottengono i Marsala Fine, Superiore, Superiore Riserva, Vergine Soleras, che a loro volta si differenziano per tre diverse tonalità di colore: oro, ambra e rubino. Per concludere, come per gli antichi romani e greci il simposio era un momento di riflessione culturale, anche ai giorni nostri degustare un vino passito deve essere un attimo di riflessione conviviale, facendoci sentire parte di una storia millenaria, che narra delle vicissitudini che la nostra terra ha affrontato e superato per consegnarci queste grandi eccellenze.

 Luigi  Rigazzi

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Piccola bibliografia:

  • Andrea Bacci, De naturali vinorum historia de vinis Italiae et de convivijs antiquorum, libri septem, Romae, ex officina Nicolai Mutij, 1596 – al colophon 1597; 
  • Antonino Buttitta, Il vino in Sicilia, Sellerio Editore, Palermo, 1977;
  • Antonino Buttitta, Girolamo Cusimano, Sicilia: L’Isola del vino, Edizioni d’Arte Kalòs, Palermo, 2005;
  • AA.VV., La Sicilia del vino, Maimone Editore, Catania, 2003;
  • Calerio Casalini, La grande guida dei vini in Sicilia, Città Aperta, Troina (EN), 2010;
  • Salvatore Mondini, L’industria dei vini Marsala in Sicilia, Tipografia di G. Denaro, Giarre Riposto (CT), 1896;
  • Rosario Lentini, L’invasione silenziosa. Storia della fillossera nella Sicilia dell’800, Torri del Vento Edizioni, Palermo, 2015;
  • R. Grandori, Risultati dei nuovi studi italiani sulla fillossera della vite,  Ulrico Hoepli, Milano, 1914;
  • AA.VV., Vini di Sicilia, Prefazione Luigi Veronelli, Regione Sicilia, Istituto Regionale della Vite e del Vino, Palermo anni ’90;
  • AA.VV., Dai vigneti sperimentali della Sicilia, Istituto Regionale della Vite e del Vino, Palermo, 1994;
  • Maggio Diego, Ragioni e sentimenti della Sicilia del vino, Gedit Edizioni,  Bologna, 2012.

 NOTE DELLA SECONDA PARTE:


[1] Saverio Landolina Nava,  1743 / 1814 – , storico, archeologo, enologo.

[2] Monti Biblini, monti della Tracia.

[3] Accademia dei Gergofili, antica istituzione fiorentina, fondata nel 1753.

[4] Archia, nella mitologia greca è il mitico fondatore di Siracusa.

[5] Eumelo di Corinto, VIII secolo a.e.v., è stato un poeta greco antico, fu uno dei primi corinzi ad approdare in Sicilia, ad Ortigia nel 734 a.e.v. assieme all’amico condottiero Aechia dove fondarono il promo nugleo della futura Siracusa.

[6] Santocono Russo Giovacchino, 1916 / 1993.

[7] Albert Jouvin de Rochefort, 1640 / 1710, è stato un viaggiatore e cartografo francese.

[8] Giovanni Carmelo Verga, 1840 / 1922, è stato uno scrittore drammaturgo e fotografo, considerato il maggiore esponente della corrente letteraria del verismo.

[9] Alexandre Dumas padre, 1802 / 1870, scrittore e drammaturgo francese.

[10] Gabriele Lancillotto (anche Lancellotto) Castelli principe di Torremuzza e marchese di Motta d’Affermo, noto anche con lo pseudonimo di Selinunte Drogonteo (Palermo 1727– Palermo 1794), è stato un numismatico e antiquario italiano, che consacrò la sua vita allo studio della numismatica e delle antichità della Sicilia.

[11] Scena parete ovest della tomba di Nakht – TT 52 – Necropoli tebana di Dkeikh-Abd-el-Qurna – 2.

[12] La durata del periodo di Naqada III o semainiano si pone solo approssimativamente dal 3200 a.C. al 3000 a.C. in quanto la cronologia della Cultura di Naqada è tuttora in fase di studio, ma con le ultime datazioni al carbonio-14 sarebbe durata dal 3300 al 3060 a.e.v..

[13] Quinto Orazio Flacco, 65 a.e.v. / 27 e.v.. è stato un poeta romano.

[14] Orazio, Ode 1,37, Gioia alla morte della regina.

[15] Le fumarole sono fenomeni di vulcanismo secondario con fuoriuscita di vapori e altri gas vulcanici.

[16] Il neolitico è un periodo della preistoria, l’ultimo dell’era della pietra.

[17] I Sesioti sono un  popolo che abitò in epoca preistorica l’isola di Pantelleria. Come testimonianze archeologiche hanno lasciato il  più grande muro preistorico di tutto il bacino del Mediterraneo e le loro tombe chiamate sesi.

[18] L’ossidiana, è un vetro vulcanico, che si forma al rapido raffreddamento della lava.

[19] Omero, Odissea I, 48-49, https://it.wikisource.org/wiki/Odissea_(Romagnoli)/Canto_I

[20] Foto Lago di Venere di Mariacristina Parenti.

[21] Bacco /Dionisio, dio del vino e della vendemmia,  del piacere dei sensi e del divertimento.

[22] Cupido,o Amore, dio dell’amore della mitologia, del pantheon greco.

[23] Psiche, personaggio della mitologia greca, personificazione dell’Anima gemella.

[24] Dammuso in siciliano vuol dire “volta” o “intradosso”, è l’architettura tipica della Sicilia della zona dei Monti Iblei e dell’isola di Pantelleria.

[25] Cordone speronato, sistema di allevamento della vite: durante la potatura invernale si selezionano 5 – 7 germogli ben lignificati da cui si ricavano speroni a due o tre gemme.

[26] Disciplinare, fonte: www.passitopantelleria.it

[27]  http://www.passitopantelleria.it/storia/

[28] Sicani, erano un popolo della Sicilia stanziato anticamente su quasi tutta l’isola, con l’avvento dei Siculi furo spinti nella parte occidentale dell’isola.

[29] Petrosino,  piccolo comune tra Marsala e Mazara del Vallo, sorge su un’ area pianeggiante che si apre verso il mare.

[30] Il Marsala britannico, http://www.consorziovinomarsala.it/index.php?op=ds&pg=ilmarsala/lastoria/ilmarsalabritannico

[31] Baglio è un edificio che contiene la corte o il cortile. Sulla sua etimologia incerta sono state avanzate diverse ipotesi: deriva dal latino ballium; deriva da balam (casa fortezza) costruzione per difendersi dalle incursioni dei corsari; edificio in cui esercitava la sua mansione il baiulo; o può derivare dall’arabo bahah che significa cortile.

[32] Vincenzo Florio, Palermo 18 marzo 1883 – Epernay 6 gennaio 1959, è stato un importante imprenditore italiano – fondatore a Marsala  delle Cantine Florio.    

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