Arcadia Felix di Enzo Papa
ARCADIA FELIX
di Enzo Papa
Sono certo che neppure Monica Ferrando avrebbe mai immaginato che il suo “encomiabile, suggestivo e denso saggio” (M. Ferrando, Il Regno errante. L’Arcadia come paradigma politico, Neri Pozza Editore, Venezia, 2018, pp. 620), potesse generare un altrettanto e straordinario studio a sostegno, ad approfondimento, quasi un commento esegetico alle tesi da lei magistralmente avanzate sulla funzione che la mitica Arcadia, l’impervia e felice regione del Peloponneso, ha esercitato sulla poesia e sulla filosofia della cultura occidentale. Ed è il filosofo siracusano Roberto Fai col suo recente libro (Pastorale Arcadica. Per un Regno giusto, Milano, Mimesis, 2020, pp. 150) a tessere tutta una trama di profonde riflessioni puntuali e convincenti e ad illuminare ancor più l’orizzonte proposto dall’illustre studiosa, filosofa, pittrice e teorica direttrice della rivista on-line De Pictura.
Il tema portante dello studio della Ferrando (e di conseguenza di Fai) è la convinzione di offrire una nuova interpretazione dell’Arcadia che ruota intorno al recupero del rapporto, anche “politico”, tra uomini e natura, in contrasto col nostro mondo ingiusto e autoritario che vorrebbe la cultura, qui sintetizzata nella poesia e nel mito, ancella e succuba del potere. Nella nostra storia millenaria l’Arcadia e il suo concetto di mitica regione felice, è risuonato più volte, anche con letture diverse, ma sempre con un unico comune denominatore, come di una proto-civiltà ricordata nella storia e nella mitologia, il cui popolo misterioso, “in possesso dell’amore del pensiero”, viveva una condizione panica tra uomini e cose in una composita etnica realtà politica fondata sulla reciprocità dei diversi. L’Arcadia, dunque, anche come interessante modello di vita sociale e politica, una sorta di parificazione di federazioni di pari rango accomunate da un unico e condiviso ideale politico. Ed è proprio qui che trovo del tutto originale e per tanti aspetti condivisibile, la rilettura delle Bucoliche di Virgilio (che per la curiosità provocatami, sono andato a rileggere col nuovo occhio), come adesso viene fatta dalla Ferrando e da Fai, che su quella geniale poesia gettano nuova luce e che poi è il punto convergente di tutto lo studio, da cui parte, come in raggiera, una inesauribile ricchezza di riflessioni.
A noi, a scuola, hanno insegnato che il quadro poetico delle Bucoliche era quello di una pastorale serenità, una idilliaca condizione come modello di vita semplice, quasi un’aspirazione all’estraniamento sociale e magari politico. Ma nessuno ci aveva spiegato cos’era realmente l’Arcadia e perché mai Virgilio, affidandosi alla forza della poesia, avesse ambientato fra quei boschi del Peloponneso i dialoghi dei suoi Titiri e Melibei, pastori sensibili e intelligenti, assurti a simboli di primigenia innocenza. Nessuno ci aveva spiegato che invece Virgilio adombra in quella mitica regione un’organizzazione politica e sociale e forse anche religiosa, foriera di universali principi, una forma di vita improntata alla giustizia, sicuramente in contrasto con i suoi tempi vertiginosi e drammatici. Virgilio, insomma, sognava uno Stato giusto. Adesso ci viene spiegato cos’era e cosa poteva essere la mitica Arcadia, scoperta dal grande poeta come sognato “paesaggio spirituale”, per cui il titolo del lavoro di Fai, Pastorale Arcadica, intende riportare alla luce della coscienza “un continente simbolico sommerso”, la sua condizione naturalistica relegata e confinata “in eterno nell’ombra e in una sfera di marginalità in cui è stata avvolta per sempre”. Ma anche, quel titolo, intende “rinviare al colorato caleidoscopio dell’intero universo arcadico – ricco di dimensioni mitiche, simboliche, poetiche, filosofiche e anche politiche – nel suo confronto speculare con la potente Atene, ben presto obliato”.
A far ciò, l’attenzione dei due studiosi si sofferma opportunamente sul concetto di “Nomos”, su ciò che questo termine doveva significare per i Greci, che, a quanto pare, non riassume soltanto il concetto di “Legge”, come voluto in primis da Cicerone e da tanti altri eminenti studiosi, fino a Carl Schmitt, ma ha, invece, una triplice valenza nel suo singolare intreccio di “pascolo, canto e legge”, così riportando alla sua arcadica natura originaria il vero senso del “Nomos” dove la “Legge”, la “Dike”, la giustizia è parte integrante, ineludibile e attiva della “condizione politica”. Mentre Atene rappresenta la polis-stato che legittima la “forza” del potere negando la triplice valenza del “Nomos”, l’Arcadia è invece una società che si modella come non-polis senza capi, dove la “forza” si fa “giustizia”, negando ogni forma di autoritarismo politico. E poi, l’Arcadia non ha dato i natali ad Ermes, il dio inventore della lira e della siringa, “il dio del pensiero che scorre incessante”, e a Pan il nomade dio simbolo della giustizia universale?
Ma c’è anche un “filo rosso” che conduce a Platone, al suo “Simposio” (che, acceso da curiosità, sono andato a rileggere), dove Socrate, dopo la discussione tra tutti i convitati su Eros/Amore, sul suo significato più o meno divino e sulla sua funzione politica, racconta di Diotima di Mantinea, una donna della città dell’Arcadia, costretta a subire la violenza di Sparta, che dà una buona lezione al “freddo razionalismo politico” dei convitati ateniesi sul chiasmo Eros-Filosofia, come dire confermando la triplice valenza del “Nomos” nelle tradizioni culturali e mitologiche, e dunque nella struttura socio-politica dell’Arcadia. “In altri termini – scrive Fai – solamente una donna dell’Arcadia poteva incarnare, essere espressione di una “erotica filosofico-politica” –e darne ragione all’interno di un convivio di soli uomini illustri o potenti proprio ad Atene – di cui l’Arcadia era metafora, figura e “comunità umana”.
Ed è proprio qui, nel “Simposio” di Platone, che fa capolino il “Regno giusto”, sottotitolo del libro di Fai, complemento al “Regno errante” della Ferrando, e che è, certamente, il giusto regno anelato nella poesia delle Bucoliche virgiliane. Il celebre quadro esoterico di Nicolas Poussin “Pastori dell’Arcadia”, quello straordinario “memento mori” che sapientemente la Ferrando ha scelto come copertina del suo libro, è, infine, una sorta di emblematico contraltare. “Et in Arcadia Ego” è la sibillina espressione ellittica del verbo (sum?, eram?) incisa sulla tomba che i tre pastori stanno osservando in presenza di una figura femminile; un’espressione che nel corso degli anni ha subìto diverse letture, ma che alla fine tende a dimostrare che anche nell’Arcadia non ci si può sottrarre alla morte, sebbene “il tema di un’ “Arcadia felix” – scrive Fai – ha rappresentato uno sfondo simbolico inesauribile che da Teocrito è giunto sino a Virgilio, lungo un itinerario letterario e poetico che s’è inoltrato, trasvalutandosi, dal mondo pagano a quello cristiano, sino a divenire una sorta di allegoria morale che ha trovato nella pittura e nel mondo delle Lettere e delle Arti tra gli Umanisti e poi nel XVI e XVII secolo, diffuse forme di rappresentazione artistica. L’Arcadia come paradiso terrestre, età dell’oro in cui l’amore, l’amicizia e l’”otium” hanno scandito la felicità di quella forma-di-vita bucolica e pastorale che ha connotato la singolare Regione del Peloponneso, retta da saggi sovrani”.
Due libri complementari, dunque, pasto per palati raffinati, da leggere anche in parallelo, l’uno figlio dell’altro.
Enzo Papa
NOTA BENE – L’articolo di cui sopra è tratto da:
pag. 23 del quotidiano LA SICILIA, di ieri 8 Maggio 2020, che si ringrazia.