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“La patria ideale di Mariannina Coffa” di Marinella Fiume

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“La patria ideale di Mariannina Coffa” di Marinella Fiume

La Patria ideale di Mariannina Coffa. 

“Né patria io m’eb­bi, né l’avrò giammai…”

di Marinella Fiume

   Mariannina Coffa (Noto 1841-1878) è ricordata spesso come poetessa risorgimentale. In realtà quella stagione poetica è stata una breve parentesi giovanile, un tributo pagato al periodo storico contingente che fece scendere nell’agone poetico e spesso anche nei campi di battaglia molte Siciliane al grido: “Anche noi siam risorte”.  Perché indubbiamente le Siciliane parteciparono a pieno e vario titolo al movimento rivoluzionario, anche se la storia ha lungamente preferito occuparsi molto poco di loro. Ma, finiti gli anni gloriosi delle battaglie risorgimentali, subentrava la delusione cocente: la sto­ria non offriva più prospettive e gli sconfitti, le donne, si in­terrogavano sul senso di tante lotte e di tanti entusiasmi.

   Così, nella successiva poesia coffiana, si corrode progressivamente il concetto di Patria (“Né patria io m’eb­bi, né l’avrò giammai”), che aveva costituito il nucleo d’ispirazione delle poesie giovanili e che diviene ora, la meta celeste, la residenza dell’anima prima della sua incarnazione nella creta mortale, il “mondo di luce”.

Si accentua in questa fase il cosmopolitismo massonico in quanto la patria non è nessuna di quelle terrene, nemmeno quella Noto che le diede i natali e che ella agognava mentre risiedeva come una prigioniera in quella patria adottiva che fu una Ra­gusa non amata, come si vede nelle quartine di O Patria mia! (1874): “Oltre quei monti che il sol rischiara/Fra sogni aurati m’ebbi la culla:/Ma i primi canti della fanciulla/Cercavan sempre patria più cara”. Per concludere con la dolorosa ma insieme orgogliosa presa di coscienza: “Spossato il core nell’aspra guerra,/No, la mia patria non cerco in terra./Io nacqui ai sogni dell’armonia…/Io chiedo al cielo la patria mia.”.

   Il concetto di patria viene scosso dalla critica dissacrante della storia recente che emerge nella lirica pacifista (1871) dedicata ad Adelaide Cairoli Bono, La guerra (“Veggo il cozzar dei secoli/scissi in tenzone orrenda;/E i popoli seguir l’ardua vicenda/Chiedendo invano la cagion qual è!”), dove la morte dei fratelli Cairoli è compianta come “esecrando scempio” e il dolore della madre, accomunato a quello delle altre madri dei giovani periti a Mon­tebello, San Fermo, Solferino, ad ammonimento di pace per “quei superbi a cui l’Italo onore/È sgabello al potere”, e di uguaglianza tra i popoli, perché “Angli, Ispani, Tedeschi, Itali e Franchi/Parte siam d’una medesma idea,/ Una sola famiglia”. In conclusione, l’invito alle donne italiane ad educare i figli alla pace e a prepararli “a la gran lotta del pensier”.

Che la libertà si debba ottenere con l’educazione dei popoli, la repubblicana e socialisteggiante Coffa, lo aveva soste­nuto già all’indomani della rivoluzione antimonarchica spagnola del ’68 nel breve Saggio storico-politico, intitolato Spagna! Qui, un unicum nella sua produzione, aveva individuato nel “cieco fanatismo” dell’Inquisizione, con le sue confische, i suoi roghi e le sue torture, nella superstizione e nel­la responsabilità dei Papi, le cause del decadimento e indicato mazzinianamente nella fede, nell’uguaglianza e nel diritto, frut­to dell’istruzione e dell’educazione morale dei popoli, i rimedi.

   Ma, mentre esulta per la rivoluzione compiuta da quel generoso po­polo, in nome della “Libertà di coscienza” che portò “martiri ge­nerosi” di ogni paese a “stringere in un sol voto e il Comunismo e la Fede”, afferma che queste idee non possono trionfare con le sanguinose lotte intestine, perché “l’era della Repubblica non è giunta ancora per gli uomini!”, essa “verrà” “placida” e “inaspet­tata”, “senza richiedere il sangue di migliaia di martiri”, quando “sarà compiuta la rivoluzione morale”. Ciò che si ottiene con il sangue, infatti, si perde presto. Eroico è stato, dunque, il popolo spagnolo, insorto in nome della Repubblica e dell’uguaglianza, ma queste idee devono es­sere patrimonio di tutti i popoli della terra e si otterranno solo quando trionferà la Scienza. La vera patria è dunque il regno dell’amore, il mondo degli angeli e degli spiriti, da dove si staccano le anime per rivestire i loro pesanti abiti di creta e dove ritornano dopo aver abbandonato le spoglie terrene.(Nota Bene:Corsivo del Direttore)

Queste concezioni trovano la loro teorizzazione nell’apparato filosofico-allego­rico-politico del sapiente Maestro, il dott. Giuseppe Migneco, originario di Augusta e trasferitosi in seguito a Catania, nonché dei gruppi di democratici, mazziniani e socialisti sconfitti nel processo ri­sorgimentale e approdati ai circoli spirituali e alle logge di omeopati e magnetisti, come il netino Lucio Bonfanti, medico curante della poetessa.

Le lettere ad Ascenso, al precettore, ai familiari, agli amici e ai conoscenti, che hanno visto la luce nei volumi Sibilla arcana e Voglio il mio cielo – con  Biagio Iacono – scritte dopo che la poetessa è divenuta una mal mariée come tante aristocratiche e borghesi della Sicilia del XIX secolo, descrivono l’inferno domestico nella sua casa di Ragusa, in quella città fredda ed emarginata dell’interno dell’isola, accanto a un marito succube del padre, un suocero rozzo e violento che le rimprovera  l’esiguità della dote, le apre la corrispondenza e le vieta la scrittura perché “rende le donne disoneste”.

Una quotidianità fatta di pesanti incombenze domestiche, di mal tollerate e ravvicinate gravidanze che minano il suo gracile fisico, di malattie e mortalità dei figli, ma fatta anche dell’angosciante senso di colpa per aver ceduto al volere dei genitori sposando Giorgio Morana quel fatidico 8 aprile 1860. Al rimpianto del perduto amore, la donna accompagna quello della patria lontana, mentre il clima e la neve di Ragusa minano la sua salute e le scenate con il suocero, il responsabile principale della sua infelice vita a Ragusa, le opprimono l’anima. E ciò malgrado i rapporti di affettuosa amicizia con Filippo Pennavaria, il ragusano medico di famiglia, e col compare Giambattista Lupis che, fin dai primi tempi delle nozze, le fu vicinissimo, confessandole il senso di colpa per averla fatta conoscere ai Morana, e al quale lei, nei momenti più tristi,  arrivò a scrivere anche due volte in una sola giornata.

Ma quando Mariannina fa il salto di lasciare la casa maritale e di stabilirsi da sola a Noto, consapevole della di­sapprovazione sociale e del vespaio di pettegolezzi che questa scelta avrebbe sollevato, anche la patria natia le restituisce un volto ostile, a partire dai genitori. La verità è che, a parte pochissimi intellettuali e amici, a Noto come a Ragusa le idee di Mariannina Coffa, le sue scelte di vita furono considerate sovversive perché minoritarie e contro corrente, proiettate verso un futuro ancora da venire (pensiamo ad esempio al desiderato divorzio), e se questo è motivo di discriminazione per un uomo si pensi quanto di più lo sia per una donna. Di questa diversità Mariannina Coffa pagò lo scotto con la vita, perché non fu aiutata, ma anzi lasciata sola ed emarginata quando più ne aveva bisogno, ossia nella fase più acuta di quella malattia che doveva condurla alla morte a soli 36 anni.

Marinella Fiume

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NOTA BENE: Il testo di cui sopra, domenica 31 Ottobre 2021 

     è apparso a pag.18 del quotidiano La Sicilia di Catania,

che ringraziamo per la collaborazione.

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