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Gino Raya e… la corruzione d’oggi a nostre spese!

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Gino Raya e… la corruzione d’oggi a nostre spese!

CORRUZIONE A NOSTRE SPESE: 

Gino Raya nei Tre vinti (1976) anticipava lo scenario

della corruttela italiana da Tangentopoli a oggi.

 Breve saggio di  Paolo Anelli

Frontespizio del libro di Pasquale Licciardello, Il famismo nella cultura contemporanea, 1974.

Frontespizio del libro di Pasquale Licciardello, Il famismo nella cultura contemporanea, 1974.

 

 

Abbiamo celebrato il ventennale di Tangentopoli, che portò alla caduta della prima Repubblica (1992-2012). L’abbiamo celebrato con una legge anti-corruzione varata dal governo Monti quasi alla fine del tempo a disposizione (6 novembre 2012, n. 190, “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione”, G.U. 13.11.2012, n. 263).

Anelli 1

Secondo il Ministro Paola Severino, i numeri raggiunti in Parlamento “evidenziano l’ampia condivisione del progetto da parte dei soggetti politici che vi hanno contribuito”; ma l’ex premier ‘tecnico’ Monti ricorda poi, in campagna elettorale, che quella legge fu ostacolata dai due maggiori partiti, Pdl e Pd, che componevano la maggioranza, i quali poi, dopo aver costretto il governo a varare quella legge “al ribasso”, una volta dentro la battaglia elettorale, e salito in politica il Professore stesso, non hanno esitato ad accusarlo: “riforma insufficiente”. Spicca in questa accusa Pier Luigi Bersani, che sceglie come portabandiera del Partito Democratico  alle elezioni del 24-25 febbraio 2013 il procuratore antimafia Pietro Grasso, presentato come simbolo della “riscossa civica” che il Pd vuole incarnare.

Anelli 2Ma è sfuggito a tutti o quasi che lo stesso Bersani, costringendo Monti ad annacquare la legge anti-corruzione, era riuscito così a salvare dalla condanna il suo più stretto collaboratore, Filippo Penati, rinviato a giudizio il 1 ottobre 2012 per concussione e corruzione.

Il 26 gennaio 2013, nel discorso inaugurale dell’anno giudiziario il primo Presidente della Corte di Cassazione Ernesto Lupo elogia la Ministra Severino per avere interrotto il trend di “inerzia e indifferenza” che durava da undici anni (periodo in cui “si è omesso finanche di procedere alla ratifica della Convenzione penale sulla corruzione fatta a Strasburgo il 27 gennaio 1999, ratifica avvenuta soltanto con la legge 28 giugno 2012 n. 110”), ma denuncia la corruzione politica, economica e amministrativa  che “è andata crescendo in gravità e diffusione” da 20 anni ad oggi, senza che a questo crescendo corrispondesse, appunto, “alcuna significativa reazione politica e legislativa”. A tal punto che, dice Lupo, la corruzione è come la mafia: una “piaga storica” che, come la criminalità mafiosa, dà un’immagine negativa dell’Italia nel mondo e “incide pesantemente sulla fiducia dei cittadini verso la pubblica amministrazione e, di riflesso, sull’economia nazionale”.

Anelli 3Lo dice il supremo rappresentante della magistratura, lo dice il Capo dello Stato (durante la cerimonia di apertura dell’anno scolastico al Quirinale, 25 settembre 2012: “Nel disprezzo della legalità si moltiplicano malversazioni e fenomeni di corruzione inimmaginabili, vergognosi”), lo dice il Capo della Conferenza episcopale italiana, cardinale Bagnasco, al Consiglio permanente del 28 gen. 2013 (“la politica cessi di essere una via indecorosa per l’arricchimento personale. Per questo s’impone un potere disciplinare affidabile e una regolazione rigorosa affinché il malcostume della corruzione sia sventato”).

                                                                                                                                                                                                                                                                                    Anelli 4 L’intervento di Bagnasco sulla corruzione nella politica italiana, fatto due settimane prima delle storiche dimissioni di Benedetto XVI (11 febbraio), induce a un’incursione nella corruzione interna ai sacri palazzi, motivo non ultimo dell’atto compiuto dal Papa che dichiarò solennemente quel giorno: vigor ad navem Sancti Petri gubernandam et ad annuntiandum Evangelium vigor quidam corporis et animae necessarium est, qui ultimis mensibus in me modo tali minuitur, ut incapacitatem meam ad ministerium bene administrandum agnoscere debeam (negli ultimi mesi quel vigore di corpo e animo necessario per governare la nave di San Pietro mi è venuto meno in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero affidatomi).

 

Anelli 5 Il gesto di Benedetto XVI – scrive Galli della Loggia sul “Corriere della sera” del 13 feb. – mette in discussione il modo d’essere della struttura centrale del governo della Chiesa, che ha offerto negli ultimi tempi “uno spettacolo penoso di cattivi costumi, di calunnie, di giochi di potere, di ambizioni senza freno, di latrocini”. Il Vatileaks, lo scandalo provocato dalla sistematica fuga di documenti riservati vaticani riguardanti i rapporti all’interno e all’esterno della Santa Sede, nei primi mesi del 2012, aveva evidenziato le lotte di potere all’interno del Vaticano e alcune irregolarità nella gestione finanziaria dello Stato e nell’applicazione delle normative antiriciclaggio. Fra le centinaia di documenti, pubblicati nel maggio 2012 in Sua Santità dal giornalista Gianluigi Nuzzi, si ricostruisce, fra l’altro, la vicenda di Mons. Carlo Maria Viganò, a cui il Nuzzi aveva già dedicato una puntata del suo programma di La7, Gli intoccabili. Arcivescovo ‘pignolo’, nominato per questo dal Papa nel 2009 come Segretario generale del Governatorato dello Stato, l’ente che gestisce tutti gli acquisti (dalla benzina alle vettovaglie, dagli appalti alle ristrutturazioni edili), Viganò era riuscito a riportare in attivo il bilancio vaticano operando tagli alle spese e agli interessi, senza guardare in faccia a nessuno.


Ma il suo ben fare creò molti nemici, perché andò a colpire gli interessi di una cricca. La quale reagì: Viganò venne rimosso dall’incarico e spedito negli USA come nunzio apostolico (ottobre 2011). L’avevano messo nei guai due lettere di autodifesa scritte una al Card. Tarcisio Bertone, dal 2006 Segretario di Stato, e l’altra al Papa stesso: lo avvertiva che la sua rimozione avrebbe bloccato l’opera di pulizia da lui intrapresa contro le “tante situazioni di corruzione e prevaricazione da tempo radicate”. Parole proibite. Intanto il Papa aveva incaricato tre porporati di indagare su Vatileaks, e la loro relazione finale, dopo un anticipo in maggio, arriva il 17 dicembre  2012: “le denunce reciproche, gli attacchi, gli episodi rimasti coperti per anni e mai svelati sono una scioccante e drammatica rivelazione per il Pontefice” (Ignazio Ingrao in “Panorama” del 20 feb. 2013), gli aprono gli occhi sulle resistenze della curia al cambiamento e all’operazione di trasparenza e di pulizia da lui voluta.

E Papa Benedetto XVI, l’11 febbraio 2013 annuncia le sue dimissioni a partire dal 28 corrente mese: evento storico, successo una sola volta nei quasi duemila anni di storia della Chiesa, con Celestino V nel 1294. Nel suo annuncio ufficiale, in latino, dice che per governare la barca di San Pietro in questi tempi occorre “vigor quidam corporis et animae”, un vigore sia di corpo sia di animo che, negli ultimi mesi, gli è diminuito in modo tale da dover riconoscere la sua incapacità di amministrare bene il ministero a lui affidato. Parole sue, come quelli dei giorni successivi in cui chiarisce che la Chiesa è deturpata da gravi personalismi e lotte intestine all’interno della Curia. Dal nuovo conclave escono ‘cardinali’ tutti i ‘papabili’ italiani, a conferma del fatto che, a parte la dimensione mondiale degli scandali dei preti, e vescovi, pedofili, tutti i problemi che angustiano il cuore della Chiesa (vedi caso Boffo, tensioni tra Cei e Segreteria di Stato, scontro tra Viganò e Curia, convulsioni dello Ior fino alla cacciata di Gotti Tedeschi) tutti i problemi vaticani “parlano italiano”[1].

piazza_san_pietro I cardinali hanno trascurato i papabili italiani ed anche quelli nord-americani, la cui lobby era attiva nella Curia romana, per eleggere un Papa argentino, preso come disse subito lui “quasi alla fine del mondo”, un gesuita, Jorge Mario Bergoglio, che ha assunto il nome del Santo Poverello di Assisi: l’umiltà e la povertà del saio francescano con il sole, “l’occhio che tutto vede” della Compagnia di Gesù. Papa Francesco,  dice subito “vorrei tanto una Chiesa povera”. Nella scelta dei “fratelli” cardinali, come li chiama lui nel discorso a braccio all’Habemus Papam (Papa Ratzinger li chiamò “signori” cardinali), avrà avuto un peso quello che Bergoglio avrà detto nel Collegio cardinalizio prima del conclave, parole che essi sapevano corrispondere ai fatti, alle azioni dell’Arcivescovo di Buenos Aires, al suo modo di porsi nei confronti della corruzione che chiamava già nei suoi discorsi del 2005 “un processo di morte, una malattia dell’anima”, “la corruzione è peggiore del peccato”; discorsi pubblicati in volume (marzo 2013) col titolo: Guarire dalla corruzione.

Tornando alla corruzione in Italia, ne parla anche Trasparency International, un’agenzia non governativa e indipendente che lotta contro la corruzione nel mondo favorendo la diffusione di indici statistici ottenuti attraverso complesse ricerche. L’agenzia dà ad ogni paese un voto, da zero a dieci (zero indica il massimo grado di corruzione, mentre il dieci evidenzia l’assenza della corruzione): l’Italia nel 2009 figura al 63° posto, registrando una netta flessione rispetto alla quotazione non bella, per essere l’ottava potenza economica mondiale, del 2001, che la vedeva in 31ma posizione.

Anelli 6Lo aveva detto a chiare lettere, in una intervista televisiva a Lucia Annunziata, In mezz’ora, il 18 settembre 2011, tale Piero Di Caterina, imprenditore, che già nel 2006 aveva denunciato certi sistemi: “Tutti gli appalti e le forniture pubbliche generano mazzette, tangenti, corruzione… il malaffare ha una diffusione spaventosa.

Anelli 7Pochi milioni di ladri derubano cinquanta milioni di italiani. La corruzione è una ghigliottina che può tagliarti la testa da un momento all’altro”. Tra mafia e ghigliottina, Giampaolo Pansa (Tipi sinistri – I gironi infernali della casta rossa, 2012), nel riportare le frasi del Di Caterina, usa un’altra metafora: “Una bestia feroce che credevamo sconfitta da Mani pulite e con la fine della Prima repubblica”, “le mani di troppi della casta erano sempre sporche, persino più di prima”. Verità sacrosanta ma metafora impropria perché nessuna bestia feroce sarebbe mai capace di tali lordure, prerogative dell’animale uomo, come ha insegnato il “maestro proibito” Gino Raya quando dalle pagine di “Biologia culturale” indicava nella lezione degli animali una via per una educazione della fame biologica.                                   *  *  *

Anelli 8La corruzione politica nel Bel Paese, bubbone esploso a cavallo del secondo e terzo millennio, ha dei trascorsi nascosti, sottaciuti, rimossi, che la penna di qualche narratore nostrano ha in tempi non sospetti voluto portare alla luce attraverso personaggi che si muovono, agendo o subendo, in un contesto sociale in cui striscia la corruzione. Facciamo due esempi, uno dell’Ottocento, Emilio De Marchi con il suo Demetrio Pianelli (1890), e uno del Novecento, L’impiegato d’imposte (1957) di Nino Palumbo, facendo seguire l’analisi di un episodio del terzo dei Tre vinti, cioè dei romanzi ideati e scritti da Gino Raya a immaginario completamento del “Ciclo dei Vinti” di Giovanni Verga, pubblicato dalla “Fiera letteraria” nel 1976. Tale analisi si intreccia facilmente con gli episodi di corruzione reale venuti alla luce nel 2012. Quanto alle logiche dei vari personaggi faccio riferimento agli strumenti della critica fisiologica impostati da Raya e sviluppati da Pasquale Licciardello attraverso il suo lavoro semiotico condotto per vari decenni su testi e contesti letterari.

Il rifiuto degli intrallazzi e della “democratica uguaglianza dell’appetito”

Il fratellastro di Demetrio Pianelli, Cesarino, detto Lord Cosmetico per la sua eleganza, per accontentare le pretese della bellissima consorte, Beatrice, fa debiti, gioca e perde. Per sistemare tutto sottrae mille lire alla posta dove lavora come cassiere. È questo lo stesso impulso che sta alla base delle operazioni più raffinate che si inquadrano nei reati di peculato, concussione, corruzione: usare il denaro pubblico per scopi privati, personali. Alla base è fame di denaro, non nel senso metaforico usualmente inteso, ma, tengo a dirlo, nel senso dato da Gino Raya alle metafore fagiche: non la sfera alimentare per spiegare, in via analogica, un fatto economico, ma spiegare il fatto economico come espressione di un impulso più profondo che è il primo movente biologico dell’azione umana, la fame. E con gli strumenti della critica fisiologica rayana, affinati dal lavoro semiotico pluridecennale condotto da Pasquale Licciardello su testi e contesti letterari, cerchiamo di leggere il comportamento di Cesarino, che non trova nessuno che lo possa o lo voglia aiutare e vinto dalla vergogna si suicida, e del fratellastro Demetrio, un “bifolco” inurbato nella Milano in piena espansione economica, il quale, scapolo, impiegato del Demanio a 1.400 lire annue, si accolla i debiti e la cura della famiglia, vedova e tre figlioletti, trovando l’appoggio del cugino Paolino, ricco agricoltore che faceva affari col commercio del riso, e del cavaliere Balzalotti, suo superiore. Ma quando l’ingenuo Demetrio, la cui moralità lo tratteneva dall’esternare i segreti sentimenti verso Beatrice, scopre che il cavaliere, con la scusa di aiutare i piccoli, insidiava la bella “pigotta”, trova in quel fardello di responsabilità che si portava dentro tutta la forza necessaria per lanciare in faccia al suo Capo, furioso, quello che pensa. Viene sospeso, e poi trasferito in Maremma.

La fame, di denaro di sesso di potere, onesta o disonesta, smodata o modica, nei vari livelli che non escludono il digiuno, contraddistingue i personaggi nel loro rapporto col cibo vero, che all’ombra della Madunina si chiama risotto, esportato in tutto il mondo come risottò dalla dominante cuisine francese. Ed ecco Cesarino, aspirante suicida, estraniarsi dal popolo che festeggia in piazza il Carnevale col risotto per tutti (“polvere gialla, che voleva essere risotto”); ed ecco Demetrio estraniarsi dal rituale borghese con cui si festeggia la promozione del cavaliere a commendatore: “sedettero tutti a tavola e tutti tuffarono il capo nel risotto” il cui odore andava fino alla stazione e insieme al quale il neo-commenda “masticava le quattro parole all’ambrosiana”, preparate a casa, che avrebbe dovuto dire per ringraziamento.

Anelli 9 Entrambi estranei, Cesarino e Demetrio, l’uno al risotto popolare (si era rovinato per voler raggiungere un tenore di vita borghese) e l’altro al risotto borghese (rifiutava gli intrallazzi dei benestanti), entrambi estranei alla società cittadina, i due fratellastri non partecipano alla “democratica uguaglianza dell’appetito”. Demetrio pranza con un piatto di carne bollita o con un pesce stantìo, o con un pezzo di vecchio formaggio, e alla fine, insieme con un clochard e col cagnolino di Cesarino: pane, un salame cotto e un fiaschetto di vino.

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Il rifiuto delle bugie

Demetrio è un vinto. Non un vinto verghiano che paga con la sconfitta la voglia di “star meglio”, ma un vinto che resta schiacciato dalla propria onestà e integrità morale in un ambiente in cui la spinta al benessere si muove all’unisono con i germi della corruzione.

Anelli 12Moralmente integro era anche quel professore di un liceo del trapanese che, nel racconto Il merlo bianco di Mario Muccini (pubblicato da Raya in “Narrativa” del giugno 1959), per aver bocciato il figlio di un gerarchetto locale, viene trasferito in Veneto. A Roma, dove va deciso a chiedere giustizia, cerca nel palazzo ministeriale di farsi ricevere da qualche alto funzionario, ma…

La direzione generale non c’entra per nulla nel suo trasferimento. Motivi di servizio. Si rivolgesse al Gabinetto. E discese al Gabinetto. L’anticamera era piena zeppa di gente: monsignori, deputati, senatori, signore, maestre, presidi, professori, provveditori. L’usciere, quando udì la sua timida richiesta di parlare al Capo Gabinetto, gli rise tranquillamente in faccia”. Il modo per essere risarcito dell’ingiustizia subita non lo trova in forza dei suoi principi morali entro i canali della legalità professionale ma entrando, con un colpo di galanteria furbesca, nelle grazie della moglie del Ministro, che era “in lutto” per aver perso il suo uccellino prediletto, un merlo bianco. L’omaggio che l’uomo fece alla lady del Capo, affranta come la Lesbia catulliana, di un nuovo merlo bianco produsse l’effetto voluto: la revoca del trasferimento giunse al paese, in festa, ancor prima del suo ritorno.

Anelli 11 La descrizione degli ambienti burocratici che trascinano alla corruttela, così come è raffigurata dal Muccini, è apprezzata da Raya, critico facile alle più aspre stroncature, il quale riconosce che in alcuni passi del racconto “carichi di verità, non si può neanche distinguere il ritratto dall’arte, l’osservazione dalla denuncia”, e nel complesso Il merlo bianco, rispetto alle altre due opere di Muccini, “attinge un superiore equilibrio fra la passione e la contemplazione, l’amarezza della realtà e lo svago del racconto” (Gino Raya, Ricordo di Mario Muccini, in “Narrativa” dic. 1961). Passi carichi di verità, l’amarezza della realtà… : che il critico fondatore della critica fisiologica, in sintonia col verismo verghiano, valuti in positivo il carico di verità espresso dal narratore livornese, è anche un riflesso speculare del suo stile, che Maria Bellonci, proprio in quel periodo, in un articolo del “Giorno”, 26 aprile 1960, coglieva nella sua essenza annotando che la rivista “Narrativa” (usciva puntuale dal 1956 ogni tre mesi in 50 pagine) “pubblica racconti e scritti critici dove non una parola sia superflua o convenzionale o bugiarda”.

Dalla Milano della seconda rivoluzione industriale, in cui si muovono i personaggi di De Marchi, che precorre di un secolo la Milano-da-bere, e dai corridoi ministeriali romani, passiamo al profondo Sud del secondo dopoguerra.

Anelli 13 Un altro umile impiegato di sani principi morali lotta con le difficoltà del vivere: lo stipendio di Silio Tranifilo, Impiegato d’imposte, non basta a sostentare una famiglia con figli denutriti e malaticci, uno dei quali all’ospedale, con debiti vari, e con la moglie che si ammazza di fatica, e ripete continuamente al marito di “fare come facevano gli altri”, “si svegliasse, si arrangiasse”, “tutti lo facevano e non se ne vergognavano”. I bambini tornavano dalla scuola: Mamma, che mangiamo? Patate, rispondeva la madre, oppure: pasta e fagioli; e loro: “Sempre patate?!” oppure “Sempre pasta e fagioli!”. Si arrangiasse: in diciotto anni gliel’aveva detto migliaia di volte “e lui le aveva sempre ribattuto che l’unica cosa che gli era rimasta, era l’onestà e che quella nessuno poteva togliergliela”. E lei lo scherniva: “L’onestà! … E tu intanto muori ad oncia ad oncia, e fai morire anche noi”.

OLYMPUS DIGITAL CAMERAIl romanzo realista di Nino Palumbo (fondò nel 1960 la rivista sperimentale “Prove”, sulla quale Sciascia pubblicò i primi capitoli del “Giorno della civetta”), vinse il Premio Deledda nel 1957. È il racconto del dramma esistenziale di Silio, un impiegato onesto che, esasperato dai litigi con la moglie e dalla preoccupazione verso i figli, cede lentamente alla tentazione di compiere un illecito. Un giorno era venuto in ufficio l’avvocato Benedetti, un vecchio affarista, a discutere l’imposta sul reddito di un ricco commerciante, il commendatore Terrini, e gli aveva proposto di sostituire la relazione sugli alti profitti del commendatore con un’altra relazione, falsificata da lui stesso, in modo che il commendatore pagasse un’imposta irrisoria: una truffa vera e propria. Si intende che il corruttore, volpe untuosa, non è nuovo ad operazioni del genere: abile nei doppi giochi “tutelava gli interessi dei clienti di fronte al fisco; e gli interessi del fisco, di fronte ai clienti”.

Il povero Silio prima reagisce con ripugnanza (“morto di fame, ma onesto”), poi, la sua “purezza morale” vacilla di fronte al pressing insinuante dell’avvocato (“io bazzico da anni, da trent’anni, in questi uffici. Sono amico, fratello, di ognuno di voi… Aiutiamoci, ragioniere”). E quando sa di essersi “sporcato” vorrebbe poter tornare indietro: “invocazione che alla radice del sangue non gli dava pace”. Le misere condizioni della famiglia, soprattutto il pensiero di dovere sfamare i figli, e l’arte untuosa dell’incallito professionista lo fanno sentire “un topo in gabbia” e lo inducono, poco a poco, a venire a patti con la propria coscienza e a cedere al “maledetto imbroglio”, per il quale riceverà le briciole di una grama ricompensa, una tangente infima, utile solo a saldare gli arretrati dell’affitto, mentre il losco corruttore incamera una parcella profumata, senza correre rischi. Rischi che l’ingenuo Tranifilo non riesce ad evitare: il direttore scopre l’imbroglio, lo induce a confessare e invece di denunciarlo, lo licenzia definitivamente, mentre i due spregiudicati autori della truffa la fanno franca.

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GIOVANNI VERGA
GIOVANNI VERGA      La fiumana del progresso e la spirale delle bramosie. Da Verga a Raya.

De Marchi con Demetrio Pianelli e Palumbo con Silio Tranifilo raccontano i meccanismi nascosti e semplici di comportamenti individuali e sociali nell’Italia del nord e del sud, nell’Italia postunitaria e nell’Italia postbellica degli anni ’50 del Novecento. Meccanismi semplici, diffusi nelle classi piccolo borghesi, che fanno pensare a questi due perdenti come Giovanni Verga pensava ai suoi Vinti: il meccanismo delle passioni, movente dell’attività umana, che determinano la fiumana del progresso è, nei Malavoglia, “preso alle sue sorgenti, nelle proporzioni più modeste e materiali”. Soddisfatti i bisogni materiali, che Raya guardava al singolare, come fame biologica, come radice di tutte le passionali diramazioni, la ricerca – scrive Verga nell’introduzione al primo romanzo del Ciclo – “diviene  avidità di ricchezze, e si incarnerà in un tipo borghese, Mastro don Gesualdo (…). Poi diventerà vanità aristocratica nella Duchessa de Leyra; e ambizione nell’Onorevole Scipioni, per arrivare all’Uomo di lusso, il quale riunisce tutte coteste bramosìe, tutte coteste vanità, tutte coteste ambizioni”.

Frontespizio del libro di Gino Raya, Tre vinti (1976).Frontespizio del libro di Gino Raya, Tre vinti (1976).

Si sa che il Verga si arenò nel descrivere la vanità aristocratica, ma Gino Raya, il suo maggiore studioso, volle divertirsi a dare compiutezza all’ambizioso progetto del conterraneo, e descrisse lui i Tre vinti in quel graduale allargamento della sfera d’azione umana dove “il congegno della passione va complicandosi” in una spirale progressiva di bramosie vanità ambizioni in cui si potenzia e dirama l’avidità di ricchezze.

Ed ecco il triplice romanzo che la “Fiera letteraria” pubblicò nel 1976. Un azzardo a cui il Raya giunge dopo una completa immersione nel suo Autore, indagato attraverso due imponenti operazioni: una Bibliografia verghiana (1840-1972) di quasi 7000 voci e un epistolario di un migliaio di lettere che lo avevano indotto ad un terza monumentale impresa, una biografia di Verga, pubblicata postuma da Antonio Mazzarino nel 1990. Non solo; la molla narrativa che lo spingeva a ‘completare’ Verga doveva venirgli anche da un decennio di analisi letterarie condotte con metodo fisiologico nella sua “Biologia culturale”, trimestrale che ospitava le indagini antropologiche di Pasquale Licciardello volte a mettere in luce Il famismo nella cultura contemporanea (1974). Ecco che l’estro narrativo rayano si realizza nella fusione tra il critico fisiologico e il famista, e nel narratore verista che vuole rappresentare la fiumana del progresso a partire dalle “sorgenti” dell’agire umano scorge il più chiaro fondamento delle sue concezioni.

Veniamo dunque al terzo esempio. Quei meccanismi basilari descritti dal Verga, e che ritroviamo nelle storie di Demetrio Pianelli e nell’Impiegato d’imposte, quei meccanismi che finiscono per travolgere l’uomo che lotta per l’esistenza o per il benessere, non avevano ancora trovato il narratore capace di scoprirli e descriverli in quei soggetti che il progresso spinge alle più elevate ambizioni, che sentono in sé “la forza di dominare gli altri uomini”.

Il coraggio di mostrare la sconfitta morale nelle alte sfere, nella classe dirigente, negli alti funzionari dello Stato, nei parlamentari, nella casta degli intoccabili, ne L’uomo di lusso, non è mancato a Gino Raya.

Anelli 15Il contesto socio-politico dell’Uomo di lusso rayano è l’Italia giolittiana d’inizio secolo, quando gli scioperi, nel settore agricolo e in quello industriale, tanto al Nord quanto al Sud, di valore più politico che economico, mostravano un malessere che le moderate riforme del secondo governo Giolitti non riuscivano ad attenuare. Ecco il leader liberale, nella fiction rayana, in una passeggiata pensierosa lungotevere ricevere un suggerimento dal fiume stesso che scorre davanti a Castel Sant’Angelo (“non lo vedi… il Vaticano, tutti questi figli di Maria che non vedono l’ora di mescolarsi al gregge per brucare meglio?”). Il Tevere gli apre gli occhi:

Ero un bel fesso quando dicevo che lo Stato e la Chiesa sono due parallele che non si devono incontrare mai. Le parallele, come astrazioni matematiche, non s’incontrano mai; ma i corpi si muovono, devono incontrarsi, o scontrarsi, o dividersi, o mangiarsi, o accordarsi, per forza; noi, se mai, possiamo dargli una spintarella, a seconda i nostri interessi”.

Anelli 16Perseguire i propri interessi si può favorendo la politica dell’inciucio: “i fratelli del Vaticano e i fratelli del Quirinale” non si amano “ma il comune nemico li avvicina”.

Come un recinto in cui le brecce si susseguono in maniera tale, da far crollare il recinto stesso da ogni parte, così la scomunica papale contro il governo usurpatore apre un usciolino per i cattolici che privatamente vogliano partecipare alla vita pubblica, poi un portoncino per i candidati unti dal Signore, infine appronta e distribuisce picconi per abbattere lo steccato tra fratelli e fratelli.

Quello che accade tra fratelli e fratelli, può accadere tra padre e figlio. Quando l’onorevole Scipioni, settantenne conservatore, col potere saldo fondato nel suo “feudotto” palermitano, vede tra i banchi della Sinistra, nel nuovo Parlamento dopo le elezioni, il figlio maggiore, “per poco non tramortiva”. A Regolo, questo il nome del figlio smentito dalla sua tendenza anarcoide, aveva dato l’imbeccata la moglie: “Perché non ti presenti deputato in una lista di estrema sinistra? … Io so bene come aiutarti nella propaganda. I soldi, d’altro canto, ci sono; iscriviti al partito socialista, vedrai che da cosa nasce cosa”.

Da cosa nasce cosa: altro principio di metodologia progettuale applicato ad una politica che mira al nostro interesse e non a quello della nazione.

Il figlio, che si era presentato in un collegio milanese col cognome della madre, si avvicina al padre, dopo la seduta parlamentare, per divertirsi alle sue spalle, ma lo trova così “disfatto” da impietosirsi e cambiare intenzioni: “mi darai consigli per la vita deputatesca”. Lo va a trovare nel suo appartamento di Piazza Argentina e gli chiede come comportarsi con i colleghi, con i ministri, con gli uscieri. Cosa domandare, per esempio, a un Ministro, in una interrogazione parlamentare, per obbligarlo “a fare il mio nome, a prendermi sul serio”. Risposta pronta, date le consolidate abitudini del vecchio: nei giornali c’è sempre un fattaccio, una calamità, e quindi chiedi: “cosa ha fatto o intende fare il Governo per gli alluvionati (mettiamo) del Polesine, per i terremotati (mettiamo) delle Marche?”. Se la cosa riguarda la propria circoscrizione elettorale dovrai “essere più sveglio e deciso”. Sveglio e deciso il giovane mostra già di esserlo indicando la strategia da usare dopo la risposta del Ministro, “che sarà il solito menar il can per l’aia”, e il padre lo elogia: “Vedo che fai passi di gigante nell’erudirti nella retorica parlamentare”.

Argomento del colloquio è anche la sua situazione non tanto familiare quanto immobiliare: “Filippa è rimasta a Milano per sgombrare la casa e trasferirci a Roma. Io, per ora, sono all’Hotel Massimo D’Azeglio …”.

Anelli 18Da Aldo Moro (1977: “Non ci processerete”) a Bettino Craxi (1993: “basta con l’ipocrisia”).

Il Massimo D’Azeglio dell’on Scipioni junior è un 4 stelle nei pressi della Stazione Termini. Certo non è il Raphael, un 5 stelle lusso vicino a Piazza Navona, che era residenza abituale di Bettino Craxi a Roma, ma il giovane neo-deputato non è paragonabile al leader socialista che è stato uno degli uomini politici più rilevanti della prima repubblica. Lo storico lancio di monetine con cui fu accolto Craxi all’uscita dell’Hotel, il 30 aprile 1993, segnò la sua fine politica. Il giorno prima, nonostante su Craxi fossero piovuti una ventina di avvisi di garanzia per episodi di corruzione e finanziamento illecito di partito, la Camera aveva negato l’autorizzazione a procedere, dopo che nel suo storico discorso non si era dichiarato innocente ma non più colpevole di tutti gli altri. Va riconosciuto che il suo “basta con l’ipocrisia!” del 1993 era agli antipodi della retorica parlamentare menzionata dal personaggio rayano (1976), retorica ipocrita, invece, di cui era altamente intriso un altro storico discorso alla Camera, quello pronunciato da Aldo Moro il 9 marzo 1977 per salvare dal processo l’onorevole democristiano Luigi Gui, ex Ministro della Difesa, indagato per le tangenti che la Lockheed aveva pagato per vendere gli aerei Hercules C-130 dal 1972 al 1976. L’indagine riguardava anche un altro ex ministro, l’on. Mario Tanassi, socialdemocratico (poi condannato a due anni e quattro mesi di reclusione) e gli ex Presidenti del Consiglio Mariano Rumor e Giovanni Leone, il quale divenuto nel 1978 Presidente della Repubblica si dimise. Nel 1976 molti di quelli coinvolti nello scandalo Lockheed furono accusati di aver intascato mazzette per miliardi di lire per favorire l’acquisto di tali aerei da parte del Ministero della Difesa italiano. Alcuni furono condannati. Uno fuggì in Messico. Dei due ministri solo Gui fu salvato dal Parlamento e il discorso di Moro culminò nel grido “non ci processerete sulle piazze, non ci lasceremo processare”. L’anno dopo: il rapimento, il processo delle Brigate rosse, e l’assassinio.

Gino Raya scriverà un saggio sui Tre processi per Aldo Moro in “Biologia culturale”, settembre 1978. Il terzo processo, quello storico, “attingerebbe un discreto grado di plausibilità quando coordinasse i dati più significativi dell’uomo, dello stilista, dello studioso, del politico ecc., in modo da realizzare una scheda fisiologica d’una certa coerenza”. Del processo storico è parte, se pur aberrante, il secondo, quello illegale, e ne è elemento integrante, se pur parziale, anche il primo, quello legale: primo perché datato 1960.

Anelli 19 Si tratta del processo con cui il Consiglio di Stato condannò l’atto amministrativo con cui Aldo Moro, nel 1958, in qualità di Ministro della Pubblica Istruzione, aveva revocato senza motivazione la nomina di Gino Raya a presidente di commissione agli esami di Stato. Raya, assistito gratuitamente da Arturo Carlo Jemolo, vinse. Il Ministro Moro aveva ceduto a pressioni clientelari intese a colpire il critico, troppo scomodo per qualche suo amico conterraneo, il quale poté rifarsi soltanto raccontando il sopruso in “Narrativa” (Io e il Ministro, marzo 1959).

L’appartamento ai Parioli. Da Tangentopoli all’ingegneria della tangente.

Ma ritorniamo alla fiction del ’76. Il nostro Regolo lascerà dunque l’Hotel non appena,  arrivati i mobili, fra una quindicina di giorni, si potrà “installare in un appartamento ai Parioli”.

Ai Parioli? Appartamenti romani, di lusso, per i parlamentari, o addirittura per ministri o per leader massimi di partito, saranno frequente oggetto di inchieste soprattutto nella seconda repubblica. Dopo Tangentopoli, nel 1995 si scopre Affittopoli: case-spettacolo, affacciate su scenari incantevoli della città eterna, affittate a canoni ridicoli. Nella rete costituita da un nutrito sottobosco di raccomandati, con codazzo di amici e amici degli amici, incappa qualche nome eccellente, implicato in operazioni che scoprono un altro, ma contiguo, genere di affare: svendopoli. Ai Parioli comprano un mega appartamento i Mastella, sfruttando la vendita al rialzo di una di quattro casette acquistate al ribasso; ciò mentre sono inquilini di una casa Ina-Assitalia. Per l’acquisto di due piani di un palazzo ai Parioli, Franco Marini, il presidente del Senato, nel 2007, si difende: “Sono false le notizie che mi riguardano: io non ho avuto nessuno sconto ma ho comprato a prezzo di mercato la casa che avevo in affitto da circa 20 anni”. La difesa dei notabili, indagati o chiacchierati, è sempre la stessa: “notizie false”. E quando, di fronte a prove, si dimostrano vere, può succedere che la difesa diventi patetica, come càpita nel 2010 al Ministro Claudio Scajola, che preferisce dimettersi per potersi difendere e dimostrare che il fatto, l’acquisto a basso costo di un appartamento di fronte al Colosseo, è avvenuto “a sua insaputa” (!). Massimo D’Alema, invece, coinvolto in un ramo di Affittopoli nel 1995, per aver ottenuto da un ente pubblico un appartamento in affitto a equo canone in zona Porta Portese, ammette: aveva avuto bisogno di una casa appartenente a enti pubblici perché versava al partito metà del suo stipendio da parlamentare.

Anelli 20 La parabola dell’Affittopoli romana ritorna poi come un boomerang all’origine di Tangentopoli: al Pio Albergo Trivulzio di Milano… e lo stesso protagonista di Mani pulite, Antonio Di Pietro, vacilla di fronte alle incalzanti domande di Milena Gabanelli a “Report”, trasmissione del 28 ottobre 2012: le sue case non sono 56 ma 11, precisa il leader del partito Italia dei valori, che comunque glissa, per esempio, in merito all’appartamento di 180 metri quadri in via Merulana a Roma acquistato nel 2002. Poi ammette: “ho commesso molti errori”. Leggerezze. Il pm che metteva alle strette i big della politica sembra peccare d’ingenuità in veste di politico; se ne fa lui stesso una ragione dicendo che vent’anni fa la tangente era lì, nella valigetta, a testimoniare visibilmente lo strumento illecito utile a conseguire lo scopo illecito, oggi invece per raggiungere uno scopo illecito si usano strumenti leciti: siamo all’ingegneria della tangente.

Tutti i trucchi dei potenti per avere a poco prezzo abitazioni di lusso sono elencati nel libro, ironico sia nel titolo, Tutti a casa!, sia nell’incipit (“Se avete comprato una casa pagandola fino all’ultimo centesimo, siete fessi”), scritto da Mario Giordano, già autore di due libri anti-casta nel cui titolo l’ironia cede il passo alla realtà: Sanguisughe – Le pensioni d’oro che ci prosciugano le tasche (2011) e Spudorati – La grande beffa dei costi della politica: false promesse e verità nascoste (2012).

Anelli 21Se anche non ci fossero avvisi di garanzia, rinvii a giudizio o condanne definitive, su reati che comunque sul piano giudiziario non sono gravi, lo spettacolo offerto, ancora una volta, dalla casta italiana, in tempi di grave diffusa crisi sociale ed economica, è comunque moralmente spregevole.

“Fare gli interessi della casta politica spacciandoli come interesse della nazione”

Ma torniamo al nostro Regolo, che rivolge al padre un’altra domanda: “Ritieni che dobbiamo essere grati a Giolitti per la riforma elettorale, e insomma per il suffragio universale?”. Di universale, nella risposta, c’è la legge che esprime la sempiterna strategia della casta politica:

 – Dobbiamo:  chi, noi  italiani, o noi politici? Tutte le legislature, se ci badi bene, sono d’accordo su di una cosa sola: fare gl’interessi della casta politica, spacciandoli come interesse della nazione. (…) È una legge di natura, figlio mio, che chi mangia vuol mangiare sempre di più. I politici devono pure coonestarla, questa legge di natura, secondo gli schemi democratici che prevalgono; e allora fingono di riconoscere diritti del popolo mentre, in realtà, non provvedono che alla loro greppia.

Chi mangia vuol mangiare sempre di più. È il concetto che dà il titolo all’inchiesta di Report del 28 ottobre 2012Gli insaziabili – in cui si sono passati in rassegna quei tesorieri di partito che si pensava fossero impegnati a far funzionare la macchina partitica e rimborsare le spese elettorali, ma in realtà agivano per squallidi interessi personali. Ed erano in molti a godere della cuccagna. Gli scenari da far gola a questi ‘molti’ insaziabili erano previsti dal vecchio onorevole Scipioni:

Chissà, per esempio, che un bel giorno non spunti un Parlamento per ogni regione: pensa che pacchia, tutti i partiti avranno le colonie ufficiali a Milano, a Napoli, a Palermo, tutti i deputati potranno sperare di sistemare come deputatini figli generi e tirapiedi…

E il figlio di rincalzo affermava l’opportunità che “ogni deputato avesse uno studio a sua disposizione, una segreteria pagata dallo Stato, una vettura…”

WCENTER 0JHJBGPGEP imglapresse160907152541_8 Agenzia LapresseSi comprende ormai che nel romanzo finale del “Ciclo dei Vinti” Gino Raya vede, nel suo scandaglio biologico-culturale, la realtà futura della prima e della seconda repubblica, quella della partitocrazia dominante prima e dopo Tangentopoli e che arriva ai giorni nostri; realtà che si chiama Filippo Penati, presidente Pd della provincia di Milano dal 2004 al 2009, consigliere regionale della Regione Lombardia dal 2010 al 2012, indagato per concussione e corruzione e rinviato a giudizio il 1 ottobre 2012; che si chiama Francesco Belsito, il tesoriere della Lega Nord che nel marzo 2012 viene indagato per le ipotesi di reato di appropriazione indebita e truffa aggravata ai danni dello Stato in relazione ai finanziamenti pubblici che la Lega percepisce come rimborsi elettorali, e che sarebbero stati utilizzati dalla famiglia Bossi (e il dialogo fra l’onorevole Scipioni e il figlio non può non far pensare al rapporto fra il Senatur e il Trota); che si chiama Luigi Lusi, il tesoriere della Margherita indagato per aver sottratto i soldi dei rimborsi elettorali creando una contabilità parallela (soldi trasferiti in Canada sul conto di una società di cui era unico proprietario, fatti rientrare in Italia grazie allo scudo fiscale e investiti in immobili a Roma e altrove usando parenti come prestanome), arrestato nel giugno 2012;Anelli 25 che si chiama Franco Fiorito, capogruppo Pdl nel Consiglio regionale del Lazio agli onori delle cronache da settembre 2012: avrebbe dirottato ingenti quantità di denaro destinato al suo partito e alla Regione sui suoi conti bancari italiani ed esteri, dove emerge una strategia bipartisan, un sistema che consente ai singoli consiglieri laziali (e non solo) di sfruttare per fini personali i fondi pubblici, destinati per legge ai vari gruppi consiliari. Un sistema che è fuori da ogni controllo e che negli anni ha divorato miliardi di euro provenienti dalle tasche e dai sacrifici dei cittadini. Un sistema che costringe tutti i partiti e partitini che si preparano alla campagna elettorale per le elezioni del 24-25 febbraio 2013 a coniare un neologismo: gli impresentabili.

Corruzione e associazione a delinquere

Il terremoto che fa crollare il Consiglio regionale del Lazio ha ripercussioni su altri consessi regionali, e la Regione Umbria vede scoppiare nel settembre 2013 uno scandalo sulla precedente gestione amministrativa, addirittura con l’arresto di Maria Rita Lorenzetti, ex-governatrice dell’Umbria per due mandati, dal 2000 al 2010,  parlamentare Pd per quattro mandati. Il reato ipotizzato dalla Procura della Repubblica di Firenze, nell’ambito di un’indagine relativa ai lavori della Tav in Toscana, è di corruzione e associazione a delinquere, in quanto la Lorenzetti apparteneva a quella che lei stessa chiamava una “squadra” che secondo la Procura riportava a “un articolato sistema corruttivo per cui, ognuno nel ruolo al momento ricoperto, provvede all’occorrenza a fornire il proprio apporto per il conseguimento del risultato di comune interesse, acquisendo meriti da far contare al momento opportuno per aspirare a più prestigiosi incarichi”; l’associazione mirava “ad influire sugli atti adottati dalla pubblica amministrazione, in maniera da superare ogni possibile ostacolo e intralcio all’obiettivo strategico dell’associazione medesima”, obiettivo di natura economica. Il sistema corruttivo vigente nella Regione Umbria è d’altronde denunciato nel libro di Claudio Lattanzi I padrini dell’Umbria. La casta, i soldi, la massoneria, le coop rosse. Il sistema di potere che controlla la regione (2013).Anelli 23Il libro analizza i meccanismi attraverso i quali il Pci-Pds-Pd, insieme agli alleati, ha realizzato un sistema di controllo che passa attraverso la gestione della sanità, la pianificazione urbanistica affidata a un ristretto nucleo di costruttori eccetera eccetera.

Tra gli eccetera non mancano atti con cui i “padrini” usano la propria autorità e le proprie conoscenze per facilitare il percorso universitario di figli o nipoti di amici. I carabinieri del Ros di Firenze registrano le telefonate con cui la Lorenzetti, usando come tramite una docente, già suo assessore, fa in modo che il figlio di un amico, studente di Odontoiatria, prenda 30 all’esame di patologia generale. Altri casi emergono nell’inchiesta, casi che richiamano alla memoria il percorso del libero docente Gino Raya, che nel 1960, come membro della Commissione ministeriale del concorso a cattedre negli Istituti Magistrali, doveva constatare “a ogni momento le prove del malcostume” (sua lettera a me indirizzata il 2 ottobre 1985): la sua personale reazione al sistema della raccomandazione non poteva avere efficacia nemmeno nel caso in cui la cattedra veniva assegnata dalla Commissione a una candidata che faceva scena muta all’esame.

Anelli 24“Arrendetevi, siete circondati”: Fiorito dalle monetine contro Craxi al peculato stratosferico. 

La parabola che va da Tangentopoli agli scandali del 2012 presenta due segni emblematici. Il successo della Lega sulle ceneri dei partiti demoliti da Mani Pulite era avvenuto all’insegna di “Roma ladrona”; ebbene, “ci ha incastrati Roma ladrona” è il commento del Senatore Bossi quando con le mani nella marmellata è stato trovato Belsito il tesoriere del suo partito, fra le cui carte, ad attestare l’uso privato del finanziamento pubblico, è stata trovata una cartella “The family”, riguardante la famiglia Bossi. Se poi dal 2012 tornate indietro a Tangentopoli, il Fiorito, detto er Batman, arrestato per l’uso privato dei finanziamenti al suo gruppo politico consiliare pdl del Lazio (l’arricchimento personale è calcolato in un milione e 380mila euro, un peculato stratosferico rispetto alle mille lire di Cesarino Pianelli), ebbene, il Fiorito lo troverete in quel 30 aprile 1993 fuori dell’Hotel Raphael a gettar monetine e insulti sulla testa di Craxi. Interessante era anche la maglietta che in quella circostanza, che divenne l’emblema di Tangentopoli e della fine politica dell’allora leader socialista, indossava il futuro er Batman: maglietta con la scritta “Arrendetevi, siete circondati!”

Lo stesso slogan userà Beppe Grillo dal suo pulpito elettorale il 19 febbraio 2013.

*  *  *

L’appetito vien mangiando e “il cinismo dei nuovi boss della politica”.

Dice l’on. Scipioni: fare gl’interessi della casta politica, spacciandoli come interesse della nazione, e gli interessi per la propria greppia di parlamentari rispondono a quella legge di natura, del voler mangiare sempre di più, all’insaziabilità che creerà “un parlamento per ogni regione”, con deputatini e portaborse, segreterie e auto blu a carico dello Stato. Insomma, sentenzia il vecchio: “l’appetito vien mangiando”.

La insaziabilità di oggi è ben descritta ai pm di Monza dall’immobiliarista Giuseppe Pasini, costretto a pagare tangenti per poter lavorare al recupero dell’area che era stata dell’acciaieria Falck: “Era gente che arrivava tutta insieme e si attaccava all’osso, perché era abbastanza grosso e volevano rosicchiarlo”.

È una fame, quella che mostrano i deputati colleghi dell’on. Scipioni, che sembra quasi abbandonarlo: i suoi elettori “gli scrivevano risentiti per la lentezza dei suoi servizi oppure lo abbandonavano per altre clientele”. Il figlio, mentre passeggiava dando il braccio al padre dal piede incerto, lo aiuta a capire la sua attuale condizione: la differenza tra lui e gli altri, gli spiega il figlio, è “in ciò che tu hai, di nuovo, e in ciò che tu non hai”. Di nuovo hai il bastone; come può sembrare valido ad aiutare gli altri chi stenta a reggere se stesso? Quanto a quello che non ha, questo è: “il cinismo dei nuovi boss della politica”.

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La Cultura a proprie spese

Fra il racconto di Gino Raya, che è del 1976, e il pensiero di Nino Palumbo corre un filo, di cui ho già detto ne “L’Alba” di aprile 2008,  ricordando il “maestro proibito” e ricostruendo il rapporto fra i due, che era nato, in virtù della loro schiettezza e onestà intellettuale, sulle pagine di “Narrativa”, nel 1959, a poca distanza dal successo di Impiegato d’imposte. Il loro comune sentire si può evincere da una risposta data da Palumbo a Giovanni Occhipinti, che lo intervistò per “Cronorama” (ag.-ott. 1978).

Prima il mio atteggiamento, nei riguardi della vita esterna e degli uomini, è di denuncia, di protesta, di dolore, poi con gli anni è stato di delusione, d’impotenza e di disprezzo. Voglio dire che mi sono reso conto che la corruzione, gli intrallazzi, le prevaricazioni, i soprusi, gli scandali, sono così radicati negli uomini e nelle istituzioni del nostro tempo, che non serve denunciarli attraverso la rappresentazione. E allora è meglio metterne in evidenza i lati comici, ridicoli, grotteschi. Gli anni cioè mi hanno portato a giocare con la loro ‘imbecillità’ e, sia pure impastato di dolore per tale condizione e condizionamento, ho raggiunto una specie di accettazione spirituale”.

Una accettazione che non è rassegnazione. Né per Palumbo, né per Raya, che continuerà fino alla fine, 2 dicembre 1987, a scrivere e pubblicare, a proprie spese, opere che onorano – non me ne vorrà l’antimaiuscolaro – la Cultura della nazione.

                     Assisi, 30 Ottobre 2013                                                  Paolo Anelli

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[1] Una analisi della situazione vaticana, tra scandali e veleni, è svolta da Massimo Franco, inviato del “Corriere della Sera”, nel volume La crisi dell’impero vaticano, Mondadori, Milano, pp. 140. Il libro è stato scritto prima delle dimissioni di Papa Ratzinger, e aggiornato, dopo l’evento, con un capitolo d’appendice sull’argomento.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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