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Noto: Enzo Papa su Bufalino a “Volalibro”

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Noto: Enzo Papa su Bufalino a “Volalibro”

GESUALDO BUFALINO, la figura e l’opera

Conferenza di Enzo Papa

Noto, Palazzo Impellizzeri, “Volalibro” 21 novembre 2013.

 ENZO PAPA Conferenza BUFALINO Volalibro 010L’avventura letteraria di Bufalino comincia realmente nel 1981, anno della pubblicazione della Diceria dell’untore, il romanzo che rivelò lo scrittore al mondo letterario italiano. Nacque allora il caso Bufalino e l’aprì proprio Leonardo Sciascia pubblicando su L’Espresso un intervento e un’anticipazione del libro col titolo, ad effetto, “Che Mastro questo don Gesualdo”. E in effetti fu molta la curiosità suscitata all’apparizione del libro. Ma chi era quello sconosciuto professore in pensione che rivelava, in quel racconto, di avere l’universo in casa? Chi era quell’uomo umile e riservato che viveva a sud del sud, il quale dimostrava lunga e raffinata dimestichezza con la scrittura, con l’esercizio della parola scritta che con grande perizia sapeva piegare a effetti e sfumature inusuali e di sicura suggestione? Perché l’opera di Bufalino apparve come un “caso”? Cosa c’era in quel libretto di tanto sorprendente, da suscitare un interesse così vasto e da costringere la critica, i critici, ad occuparsene? Insomma, non era difficile capire che si aveva a che fare con un autentico scrittore, (e non con un semplice scrivente…)  i cui temi erano quelli canonici agitati dalla grande narrativa europea del 900, ma intesi e trattati con estrema originalità, da una specola a parte: la morte, innanzitutto, e la vita, la malattia, l’amore, la memoria, Dio. Tutti temi che in un modo o nell’altro vengono fuori e permeano l’intera opera narrativa di Bufalino, perché costituiscono il suo universo, che è l’universo dell’Uomo, cioè di tutti noi.Ma, ovviamente, il valore e il significato di un’opera letteraria non sta soltanto nei temi trattati, piccoli o grandi che siano, effimeri o eterni, vecchi o nuovi, quanto piuttosto in quello che si chiama “stile”. Nel racconto, amava ripetere Sciascia, ricordando un adagio popolare e credo citando Vann’Antò,. Quel che importa è il modo di raccontare, è “comu si porta” il racconto che è importante, che poi è il mezzo, come dicevano gli antichi, perché un messaggio possa arrivare al destinatario in un certo modo. Nell’opera di Bufalino lo stile, l’artificio, la retorica assumono un’importanza fondamentale. Costituiscono, anzi, l’aspetto più eclatante, più appariscente della sua narrativa. Si tratta, infatti, di una scrittura iperletteraria in cui è difficile stabilire dove finisca la prosa e dove cominci la poesia, giacché i confini tra i due generi sono fluidi, non facilmente identificabili, irriconoscibili. Per questo si può dire che Bufalino è un narratore impuro, un narratore dall’indole lirica. Si sa, nel racconto il senso deve farsi suono, nella poesia, viceversa, è il suono che deve farsi senso. Umberto Eco, che oltre ad essere un grande scrittore è un altrettanto grande semiologo, assegna propriamente al romanzo l’espressione latina “rem tene, verba sequentur” e poi, rivoltandola, la riassegna alla poesia “verba tene, res sequentur”, ad intelligente dimostrazione del rapporto tra suono e senso che deve esistere tra i due generi letterari. Dicevo che l’indole di Bufalino è lirica. Si può affermare certamente che nella sua opera narrativa il suono prevale sul senso, cioè la parola è fondamentalmente poetica, e il senso aspira all’eroico, al sublime. Ne deriva, ovviamente, uno stile baroccamente musicale, con un ritmo interno particolarissimo che risponde, appunto, ad esigenze che potremmo definire “melodiche”, con le sue scansioni, la sue pause, le sue suggestioni.

ENZO PAPA Conferenza BUFALINO Volalibro 013Egli stesso più volte ha offerto le chiavi per meglio comprendere il significato della sua tecnica. La prosodia nascosta, le rime dissimulate, l’uso sapiente delle figure retoriche, l’andatura del periodare, la scelta delle parole, tutto un insieme di aspetti coscientemente ordinati come in una partitura musicale, a creare uno stile che, com’egli stesso ha detto, potesse “unire retorica e pietà, artificio e pena”. Certo, la scrittura è parola, si scrivono parole; in fondo è alle parole che lo scrittore affida i suoi messaggi, cioè se stesso, il suo modo di essere uomo e scrittore. Le parole sono di tutti, è ovvio: si trovano tutte, o quasi, nel vocabolario. Eppure la parola di uno scrittore è diversa da quella di un altro. Ogni scrittore usa la parola a modo suo, la fa sua, la manipola, la fa brillare, le toglie l’opacità dell’anonimato, la fa diventare parte integrante, attiva, della sua visione delle cose e del mondo. La parola di Leopardi, ad esempio, non è la parola di Manzoni. Gli arcaismi leopardiani brillano di una luce propria, direi quasi autonoma e staccata dal senso comune. Bufalino, come ogni altro scrittore che si rispetti, s’è creato un suo vocabolario. Un “sottovocabolario” desunto da quello ufficiale nel quale ha inserito, per farle sue, le parole che più rispondevano alle sue esigenze, e ne ha cancellate altre. Mi pare che egli stesso parli, a proposito della disposizione delle parole nella frase, di ikebana, che, voi lo sapete, è l’arte orientale di disporre i fiori. Ecco, il periodare di Bufalino, il suo fraseggio, si presenta all’occhio del lettore, ma anche al suo orecchio, come un ikebana di parole disposte secondo accordi musicali di misteriosa armonia. Accortamente evita i suoni aspri o stridenti, evita le sdrucciole a fine frase, antepone l’aggettivo al sostantivo secondo le norme della retorica classica, perché la sua formazione umanistica gli consente di penetrare in tutte le sottigliezze della prosodia, della metrica, della retorica e delle sue figure. “La metafora è il cibo della mia prosa” ha detto Bufalino. E sappiamo tutti quale cibo fosse la metafora nella scrittura barocca. Nella sua scrittura l’uso della metafora genera spesso quella che egli ha chiamato “l’ambiguità”, che è poi una particolare maniera di tessere rapporti col lettore al fine di coinvolgerlo in una sorta dio complicità. O anche modo di fornirgli chiavi di lettura senza troppo chiare esplicitazioni. L’ambiguità nasce dal sapiente uso dell’ellissi, della reticenza, dell’allusione, dell’omissione, del sottinteso. Manipolazioni che a volte, secondo me, sembrano di astuta ironia, una sorta di piacevole gioco intelligente nel quale si è gradevolmente coinvolti: citazioni nascoste, messaggi criptici incorporati nel testo, variazioni di senso delle citazioni, riferimenti in chiave diverse. Da qui la predilezione di Bufalino per l’ossimoro, che, come sapete, è la figura retorica che accosta due contrari, con effetti sorprendenti: Bufalino l’ha anche usato il alcuni dei suoi titoli: L’amaro miele, La luce e il lutto, Argo il cieco.

Angelo Fortuna ed Enzo Papa

Angelo Fortuna ed Enzo Papa

Egli stesso dice di soffrire un’ambivalenza tra silenzio e parola, tra logorrea e omertà, tra ordine e follia, cioè di vivere il suo essere uomo e scrittore come dentro un inestricabile ossimoro, che poi è la contraddittoria complessità dell’esistenza. Il pencolare stesso tra vita e morte, tra Bios e Tanatos, temi fondamentali di tutto il suo narrare, assieme a quelli dell’amore, della memoria, della malattia, di Dio. E di altri. Sono questi temi fondamentali e caratteristici di gran parte della produzione letteraria del 900 europeo, del Decadentismo europeo, di cui Bufalino potrebbe essere considerato un ultimo epigono. Ecco, a me pare che tutta la produzione letteraria di Bufalino debba essere letta in questa chiave che con un neologismo potremmo definire “ossimorica”, cioè di giudizio sospeso, di attivo dubbio esistenziale, di costruttiva incertezza, di dubbiosa certezza. La malattia e il suo contrario, ad esempio: la malattia come pratica mistica, come strumento di conoscenza e il suo contrario, la guarigione come infrazione o tradimento. La malattia, insomma, come vita, la guarigione invece come momento di ingresso nella “non vita”. Cos’è dunque per Bufalino la vita? Cos’è questo nostro inquieto e incomprensibile andare? La vita, la vera vita, Bios, è di qua o di là, oltre quel labile velo di nebbia che si può squarciare con estrema facilità? Usando ancora stupefacenti ossimori, in più luoghi dice “amabile, odiabile vita”, “crudele e misericordiosa vita”, cosa inverosimile da cui nasce  “spavento e stupore, ma anche delizia”. Insomma, la vita ha sempre “un bizzarro sapore d’inesistenza”. Nella prima pagina di Argo il cieco, nella locandina delle intenzioni, egli si dichiara tuttavia lusingato “ad amare l’inverosimile vita”, “perduta per timidezza l’occasione di morire” e nell’ultima pagina dello stesso racconto, eleva una preghiera alla vita, che mi permetto di leggere nella sua integrità, tanto è splendida nella sua fulminea essenzialità e brevità, e tanto significativa e importante come chiave di volta:“Tu, poca, misteriosa vita, che posso dire di te? Se m’hai sempre esibito quest’aria di bambolina truccata; se non hai fatto mai nulla per persuadermi d’essere vera… Odiabile, amabile vita! Crudele, misewricordiosa. Che cammini, cammini. E sei ora fra le mie mani: una spada, un’arancia, una rosa. Ci sei, non ci sei più: una nube, un vento, un profumo…Vita, più il tuo fuoco langue, più t’amo. Gocciola di miele, non cadere. Minuto d’oro, non te ne andare.” E cito questo brano anche a testimonianza dell’indole lirica di Bufalino, di cui Parlavo prima, giacché a mio parere di lirica truccata si tratta. Dunque, così la vita. Il suo contrario, la morte, Tanatos, tema fondamentale di ogni scrittura, può essere sentita come rimpatrio, come nòstos, come ritorno ad una libertà primigenia, ma anche come scandalo, come sopruso o, perfino, come “iniziazione amorosa” a causa dei suoi “oscuri legami” con l’Eros. Bufalino si chiede, e ce lo fa chiedere a noi, cosa sia realmente la morte, se “esilio o rimpatrio”, se “accidente o progetto”. Al tema della morte, dunque, è legato strettamente il tema dell’eros, dell’amore, per “oscuri legami”, egli dice. Eros e Tanatos. Tema antico quanto l’uomo, eppure sempre attuale. Bufalino ha una visione tutta sua dell’amore. Secondo lui il sentimento d’amore si fa più dolce e più serenante quando l’amore è finito. Esso per tanti aspetti è la vita stessa, e come essa, crea “spavento e stupore, ma anche delizia”, mentre “oscuri e solenni” sono i rapporti con la morte, che possono giungere a trasformarsi in necrofilia o, in ogni caso, ad alimentare il pendolarismo tra biofilia e necrofilia. “L’amore” egli dice “ confina ad oriente con la vita, a occidente con la morte, a nord con le chimere dell’immaginario, a sud con le diverse chimere della memoria e del vissuto. Al centro un buco nero o macchia lutea, dove agisce il Desiderio con le sue porpore e cecità”. Non esistono, insomma, nella narrativa di Bufalino, personaggi amorosi, cioè personaggi che esistono in quanto personaggi d’amore, che vivono la loro vita di personaggi in quanto creati dal sentimento amoroso. Un’eccezione potrebbe essere, probabilmente, il Narciso di Le menzogne della notte, pur con l’artificiosità della narrazione del suo rapporto con l’amore.  E questo perché in genere Bufalino analizza e descrive gli amori finiti, gli amori morti. “Io spesso ricorro a disegnare cammei di donne morte o remote o dimenticate”. L’amore splende quando finisce di ardere. Sembra un paradosso ma credo che sia così. L’amore, sembra quasi dire, l’amore vero è la memoria dell’amore, perché la memoria non è solo ricordo, ma è anche illusione e creazione al tempo stesso. ( Mi sovviene una poesia di Vincenzo Cardarelli, che si titola Passato).Memini ergo sum., La memoria, perciò è strettamente legata all’amore, alla vita, alla morte. Ricordare per essere, per esistere. Ricordare per appropriarsi di un’illusione di vita, per “riessere”, per rivivere “il miracolo del Bis”, com’egli ha scritto. La memoria come grande illusione che ci permette di allungare la vita o di dilazionare la morte. La memoria come placebo che ci illude di poter fermare il tempo nel riviversi, nel rivedersi, coi suoi occhi presbiti, che poi sono i cento occhi di Argo, che ci consente l’ingannevole sogno di vivere una seconda volta, magari con compiacimento. Non per nulla il romanzo Argo il cieco ha come sottotitolo ovvero i sogni della memoria. Ma la memoria è destinata a soccombere di fronte agli irresistibili colpi di maglio della morte, la quale tutto cancella e ci fa precipitare nell’abisso del nulla, in quell’”omega delle tenebre” di cui parla il Governatore in Le menzogne della notte: “O se l’Omega delle tenebre in cui precipito fosse l’Alfa di un’eterna luce!”. L’Alfa e l’Omega. Principio e fine. L’eterno problema dell’uomo, del nostro involontario passaggio su questa terra. L’eterno problema di Dio, dell’universo creato, della religiosità. Bufalino dice che il tema religioso è portante del suo mondo espressivo. E c’è da credergli, non solo per ciò che nella sua opera viene detto espressamente su Dio e sull’aldilà, ma anche e soprattutto per ciò che non viene detto, per quello che resta tra le righe e che aleggia un po’ dappertutto. Egli avverte la presenza di Dio, che definisce come l’ossimoro degli ossimori, col quale intesse un rapporto conflittuale, di “duello eterno”. Accanto ai grandi temi, che costituiscono le colonne portanti dell’edificio letterario di Bufalino, di altri si potrebbe ancora parlare: del disimpegno politico, ad esempio, della storia, di quello della Sicilia. Bufalino non si è mai occupato di politica attiva, non ha mai fatto scelte ideologiche, non si è iscritto ad alcun partito. Almeno non ne abbiamo notizia. Egli stesso, mi pare, ha detto che dopo la guerra avrebbe preferito il centro di Saragat e di La Malfa, se non si fosse trattato di una scelta elitaria e inefficace. Ha preferito allora non scegliere, non identificarsi, ma contribuire alla crescita civile con la forza della parola, della scrittura. Tuttavia egli è spesso intervenuto nelle questioni che agitano il nostro mondo sociale e civile, nazionale ed isolano, come Sciascia, col quale condivideva punti di vista e pareri di varia natura. Sulla storia, ad esempio, considerata tutt’altro che magistra vitae. Sia Sciascia che Bufalino nutrono un senso pessimistico della storia. Anzi Bufalino distingue tra storia maggiore e storia minore, la quale invece, se saputa leggere, sa essere probabilmente più illuminante di quella maggiore, come scrive in Museo d’ombre dove il suo paese, Comiso, tana e trappola, diventa luogo emblematico di una condizione sociale e dello spirito, un’isola dentro l’Isola in cui fatti, personaggi e figure, come detriti alla deriva vengono ripescati nella sua memoria e ricomposti come tessere di un mosaico. Perciò la Sicilia è avvertita con un sentimento costante di odio e amore. Da un lato essa appare crogiuolo di tutti i mali, dall’altro l’amorosa terra-madre da cui non è possibile il distacco. Non per nulla una raccolta di “sicilianerie” si titola, ossimoricamente, La luce e il lutto, chiaramente alludendo già nel titolo al difficile rapporto che lega lo scrittore, ma anche, diciamolo francamente, tutti noi siciliani, alla Sicilia. Egli dice di sentirsi per cultura e lingua mentale totus europeus, ma di non potersi e volersi scrollare di dosso la pelle Sicilia, ormai corpo unico, coi suoi caratteri e le sue caratteristiche, del suo essere uomo e scrittore siciliano. Egli compila un elenco di qualità e caratteristiche specifiche proprie dei siciliani, cavandone anche una sorta di DNA, ma anche della Sicilia, la quale è, a seconda dei casi, babba o sperta, pigra o frenetica, verde, bianca, gialla, bionda, purpurea. Per cui l’isola non è una, ma è plurale, ha tante facce, e difficilmente può essere compresa, anche da noi siciliani. Tante infatti sono le Sicilie. Tante, probabilmente quanti sono i siciliani. Un’isola con delle caratteristiche non facilmente definibili, un’isola che “ha avuto la sorte di trovarsi a far da cerniera nei secoli fra la grande cultura occidentale e le tentazioni del deserto e del sole, tra la ragione e la magia, le temperie del sentimento e le canicole della passione”. Per un siciliano “capire la Sicilia significa capire se stesso, assolversi o condannarsi”. Sostituendo il siciliano al persiano di Montesquieu, il quale riferisce come nei salotti di Parigi del 700 ci si meravigliava a sentire che qualcuno potesse essere persiano, Sciascia si chiedeva “Come si può essere siciliani?”. E come risposta si dava quella stessa di David Herbert Lawrence, cioè “con difficoltà”, quella stessa difficoltà che il siciliano Giuseppe Antonio Borgese ha condensato nel nec tecum nec te vivere possum dell’antico poeta. Insomma, per Bufalino l’essere siciliani crea orgoglio, ma anche infelicità, crea quel pendolarismo tra claustrofobia e claustrofilia di cui tutti soffriamo, che tutti avvertiamo, così imaginificamente sintetizzato nel neologismo “isolitudine” (Zinna), che è la solitudine di chi, come appunto il siciliano, ogni siciliano, è isola dentro l’isola; condizione fisica, morale e spirituale, come la “negritudine”, che va ad aggiungersi agli altri termini con cui si è tentata una definizione dello status dei siciliani, e cioè sicilianità, sicilianismo, sicilitudine (Cane). Scrive Bufalino: “Ogni siciliano è difatti una irripetibile ambiguità psicologica e morale. Così comel’isola tutta è una mischia di lutto e di luce, e fa sembrare incredibile, inaccettabile la morte. Altrove la morte può forse giustificarsi come l’esito naturale d’ogni processo biologico; qui appare uno scandalo, un’invidia degli dei”. Certo, chi più di lui è stato isola nell’isola? Chi più di lui ha osservato il mondo dalla specola della sua stanza, appartato nell’osservatorio del suo bunker come un guardiano di faro, timoroso e diffidente della vita esterna, confondendosi e mimetizzandosi, ma attentissimo a non lasciarsi sfuggire alcunché e tutto osservando e imprimendo nella memoria? Chi più di lui è stato capace di vivere tutta la vita nella tana di un villaggio o paese del profondo Sud e intanto trionfare sull’universo, evadendo solo col pensiero, con l’immaginazione, dormendo “fuori dello stesso letto non più di mille notti”? Chi più di lui ha vissuto profondamente la sua “isolitudine” mantenendo i contatti col mondo esterno leggendo tous les livres?

ENZO PAPA Conferenza BUFALINO Volalibro 002Nel Discorso alla Reale Accademia d’Italia, tenuto il 3 dicembre 1931 per celebrare il 50° anniversario della pubblicazione de I Malavoglia, il siciliano Luigi Pirandello ebbe a scrivere dei siciliani queste parole: “ I siciliani, quasi tutti, hanno un’istintiva paura della vita, per cui si chiudono in sé, appartati, contenti del poco, purché dia loro sicurezza. Avvertono con diffidenza il contrasto tra il loro animo chiuso e la natura intorno aperta, chiara di sole, e più si chiudono in sé,  perché di quest’aperto, che dsa ogni parte è il mare che liisola, cioè che li taglia fuori e li fa soli, diffidano, o ognuno è e si fa isola da sé, e da sé si gode – ma appena, se l’ha- la sua poca gioia; da sé, taciturno, senza cercare conforti, si soffre il suo dolore, spesso disperato…”. Non vi sembra un inquietante ritratto avanti lettera di Bufalino? Non vi sembra, allora, che un filo d’oro continua a dipanarsi nella letteratura siciliana del 900, un filo che lega gli scrittori siciliani, tutti, sia quelli che sono rimasti, sia quelli che non ci sono più, sia quelli che sono andati a vivere altrove? E questo filo non è forse la Sicilia, la sua luce e il suo lutto, che non finisce mai di stupire? Nec tecum nec sine te vivere possum. Così è stato anche di Bufalino. Così è stato di un grande maestro che nell’arco di appena un quindicennio ha saputo porsi come un  faro e squarciare tanti veli, dispiegando sotto i nostri occhi sbalorditi e stupefatti il suo insospettabile diorama, così vero, così autentico, così sconfinato. Ma Bufalino non c’è più. E il vuoto che ha lasciato dietro a sé non differenzia molto da quello lasciato da Sciascia e, da poco, anche da Consolo. Ci mancano, questi grandi siciliani. In un suo aforisma Bufalino ebbe a scrivere “oggi morire nel proprio letto è impopolare. Il pubblico fischia”. Sembra quasi una ironica premonizione giacché non  nel suo letto egli è morto. La nera signora ladra il 14 giugno 1996 ce lo ha rubato in un modo così incredibile, così inaccettabile, che noi non solo, come in un teatro, fischiamo una conclusione così banale, ma gridiamo al sopruso e allo scandalo.

Enzo Papa

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NOTA A MARGINE del  Direttore: LA VITA DI GESUALDO BUFALINO

tratta dal sito della FONDAZIONE BUFALINO DI COMISO (RG):

Gesualdo Bufalino nasce a Comiso, in provincia di Ragusa, il 15 novembre del 1920. Fin da bambino è affascinato dal mondo della parola scritta e dai libri della piccola biblioteca del padre, Biagio, un fabbro con una grande passione per la lettura.

Frequenta il liceo a Ragusa e a Comiso dove ha come insegnante un valente dantista, Paolo Nicosia. Nel 1939 Bufalino vince per la Sicilia un premio di prosa latina bandito dall’Istituto Nazionale di Studi romani. Sono gli anni degli studi classici, ma anche della scoperta della moderna letteratura europea, in particolare di Baudelaire, e del cinema francese.


Nel 1940 Bufalino si iscrive alla Facoltà di Lettere dell’Università di Catania, ma nel ’42 è costretto ad interrompere gli studi per la chiamata alle armi. All’indomani dell’8 settembre 1943 si trova a Sacile, in Friuli, sbandato, sfugge avventurosamente alla cattura dei tedeschi e si rifugia presso degli amici in Emilia.


Nel gennaio del 1944 si ammala di tisi e si ricovera presso l’ospedale di Scandiano. Qui un medico assai colto gli mette a disposizione un’imponente biblioteca. Nella primavera del ’46 si trasferisce in un sanatorio della Conca d’Oro, vicino Palermo, dove vive le esperienze e le emozioni che, debitamente trasfigurate, ritroveremo nel romanzo Diceria dell’untore. Durante la degenza collabora, su sollecitazione dell’amico Angelo Romanò, alle riviste lombarde “L’Uomo” e “Democrazia”, pubblicando alcune liriche e qualche prosa.


Nel 1947, appena guarito, si laurea in Lettere all’Università di Palermo e rientra a Comiso senza più allontanarsene se non per l’insegnamento, svolto, dapprima, all’Istituto Magistrale di Modica e poi, ininterrottamente, in quello di Vittoria.


Scrittore segreto fino al 1978, sarà l’introduzione ad un libro di vecchie fotografie su Comiso a segnalarlo all’attenzione di Leonardo Sciascia e Elvira Sellerio. Sollecitato a pubblicare le sue eventuali composizioni, solo nel 1981 si decide ad estrarre dal cassetto Diceria dell’untore, edita da Sellerio ed insignita, quell’anno, del premio Campiello. Rotti gli indugi, Bufalino inaugura un quindicennio di intensa attività produttiva con editori grandi e piccoli.


Nel 1982 sposa, dopo lungo fidanzamento, Giovanna Leggio. Nel 1988 vince il premio Strega col romanzo Le menzogne della notte, pubblicato da Bompiani. Muore in un incidente d’auto il 14 giugno 1996.


Fra le tante sue opere (di narratore, poeta, saggista, moralista, traduttore),  ricordiamo ancora: Museo d’ombre (1982), L’amaro miele (1982), Argo il cieco (1984), Cere perse(1985), L’uomo invaso (1986), Il malpensante (1987), La luce e il lutto (1988), Saldi d’autunno (1990), Qui pro quo (1991), Calende greche (1992), Il Guerrin Meschino(1993), Bluff di parole (1994), Il fiele ibleo (1995), Tommaso e il fotografo cieco (1996). Nel 1992 la Bompiani pubblica il primo volume di Gesualdo Bufalino, Opere 1981-1988, a cura di Maria Corti e Francesca Caputo; nel 2007 , con l’uscita del secondo volume, Opere 1989-1996, a cura di Francesca Caputo, si è completata la pubblicazione della produzione letteraria complessiva dell’Autore.


Le sue opere sono state tradotte in francese, inglese, tedesco, spagnolo, portoghese, olandese, danese, svedese, greco, sloveno, bulgaro, israeliano, giapponese, coreano.

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