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Mario Muccini nel carteggio Raya-Anelli

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Mario Muccini nel carteggio Raya-Anelli

MARIO MUCCINI  NEL CARTEGGIO RAYA-ANELLI

di  Paolo Anelli

 Frontespizio del primo numero di "Narrativa", marzo 1956, in cui si dichiarano contenuti e criteri della rivista: "il culto della verità e dell'indipendenza di spirito".

Frontespizio del primo numero di “Narrativa”, marzo 1956,

in cui si dichiarano contenuti e criteri della rivista: “il culto della verità e dell’indipendenza di spirito”.

   Gino Raya, fondatore-direttore della rivista trimestrale “Narrativa” dal marzo 1956, e Francesco Anelli si erano conosciuti a Roma, nella primavera del 1959, come docenti della Commissione esaminatrice per il concorso a cattedre di Italiano negli Istituti Magistrali.

Gorizia vista dal Castello

Gorizia vista dal Castello

 

Docente di Italiano e Storia all’Istituto Magistrale “Nicolò Tommaseo” di Venezia, Anelli conosceva Mario Muccini, livornese, che ivi era Provveditore agli Studi. Uomini di scuola, la loro conoscenza era saldata dall’essersi riconosciuti come ex combattenti della Grande Guerra, vissuta da entrambi nei dintorni di Gorizia. Mio padre, di famiglia vastese, nel 1917, era partito dal paese di nascita, dell’entroterra abruzzese, per arruolarsi volontario: a 19 anni, scrive in un suo curriculum, “sofferente dopo grave malattia, volli esser soldato e fui caporale scrivano; ho la croce di guerra con firma Diaz”. Monte Boccaor.

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Nel 1957 Anelli aveva i due diari di guerra di Muccini se il 20 febbraio Giovanni De Vergottini[1] lo ringraziava per aver ricevuto “il libro di ”, senz’altro uno dei diari. Si era alla vigilia del quarantennale della Vittoria e per quelle celebrazioni del 4 novembre 1918 mio padre era riuscito a rintracciare, per corrispondenza, il triestino Antonio Fonda Savio, marito di Letizia Svevo figlia dello scrittore, volendo rievocare l’episodio di Monte Valbella del giugno ’18: la controffensiva vincente guidata da Fonda Savio dopo un attacco austriaco coi lanciafiamme[2]. Dopo 40 anni, Anelli rivide Fonda Savio a Giavera del Montello, dove era stato invitato e dove conobbe pure Letizia.[3] Il contatto con la famiglia Svevo Fonda Savio, che nella seconda guerra mondiale aveva perso tutti e tre i figli, due dispersi in Russia, e uno ucciso dai tedeschi in una strada di Trieste, fu intenso, sia per i comuni ricordi giovanili del tempo di guerra,[4] sia per il comune sentire verso la tragedia vissuta nel secondo dopoguerra da giuliani e dalmati.[5]

Nel ’58, a un anno dalla morte di Livia Veneziani, madre di Letizia, era uscita la seconda edizione di Vita di mio marito.[6] Mio padre, recensendo il libro, può ricordare il capitano Antonio Savio “sereno e pensoso nella sua giovinezza, quale lo vidi nel giugno del ’18: quando – con slancio temerario, sostituendosi lui irredento, al maggiore infermo – condusse gli uomini di un gruppo di bombarde a recuperare posizione e armi sul Valbella”. E può ricordare ciò che Letizia gli disse, in quell’incontro del Montello, di sua suocera, la madre di Antonio, quando salutò il figlio in partenza per la trincea: avrebbe provato dolore se non fosse partito.

La recensione che Anelli scrisse di quel libro, che lo riportava ai valori più profondi della sua persona, lo spirito risorgimentale e il senso forte, fraterno, dell’amicizia, sarà pubblicata da Gino Raya in “Narrativa” del settembre 1959: “Sono lieto di aver trattata la cosa e di aver collaborato nella tua ‘Narrativa’ ” (25 ag. ’59). Un segno questo di una nuova amicizia, che andava sorgendo e sarebbe durata, nonostante le vedute assai diverse, fino alla loro morte (Anelli 1986, Raya 1987). Il primo alimento di quell’amicizia fu appunto la rivista del critico “proibito” che si presentava ad Anelli nel fascicolo arretrato (settembre 1956) tutto dedicato a Ferdinando Pasini, insigne figura di letterato, di cui Raya, nel decennale della morte, ricordava “l’ingegno sensibilissimo ai problemi del tempo suo, l’indole decisa e diritta, la lunga vita e le circostanze, i dolori e le opere”, caratteri che “affidano il meglio della personalità pasiniana alla storia dell’irredentismo”. Anelli riceve il fascicolo, lo legge, ne parla nella “Rivista dalmatica” (in cui è solito scrivere articoli e note bibliografiche su Tommaseo), e lo passa a Guido Perale “che di quell’uomo fu pure amicissimo”.

Frontespizio del libro su Svevo " Vita di mio marito" in cui c'è l'immagine di Letizia con i Genitori.

Frontespizio del libro su Svevo ” Vita di mio marito” in cui c’è l’immagine di Letizia con i Genitori.

 

La lettera del 6 marzo 1959, in cui dà ricevuta del fascicolo su Pasini, è la stessa in cui lo informa che “Mario Muccini ha una felice novella”, “se la vuoi scrivigli: è il provveditore di Venezia”. E Il merlo bianco appare in “Narrativa” di giugno. Raya poi scriverà nel Ricordo di Mario Muccini in “Narrativa”, dicembre 1961: “Fu per puro caso che uno studioso residente a Venezia, Francesco Anelli, ne parlò al direttore di ‘Narrativa’, il quale ne riconobbe l’eccezionale sostanza”.

Se l’8 marzo 1959 Raya aveva scritto “ti sono molto grato del segno di simpatia per la mia povera ma onestissima rivista”, si può dire che la intensa corrispondenza intercorsa in quei mesi gli fa dire il 10 agosto 1960: “Ho quasi l’impressione che il destino, fra tanti guai, mi stia usando la clemenza di farmi trovare un altro amico a Venezia, dopo quello perduto a Trieste”. E prima del Natale ’60: “Buon Natale, mio nobile amico: se io credessi in Dio, in questo momento vorrei ringraziarlo perché ha colmato il vuoto che sentivo ogni volta che pensavo all’Est dello stivale: non c’è più Pasini! Ma ora c’è Anelli.”

 

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La lettera 6 marzo ’59 con l’accenno a Pasini ed alla novella di Muccini si dilunga su “Narrativa” (ha inviato la quota di abbonamento) e su alcune persone, fra cui “una giovinetta” non nominata a cui Anelli ha suggerito di mandare a Raya qualche suo scritto, nella speranza che il critico non sia troppo severo: “tu sei mite con le Donne che scrivono”. Mite anche, gli ricorda, era stato con il Michelaccio di Antonio Baldini, redattore della “Nuova Antologia”: “andremo a rivedercelo un giorno, se ci sarà, al collegio Romano? È il solo libro che non hai stroncato”. E chiude con un’apostrofe in latino che è il ritratto di Gino Raya: Vir mitissimus scriptor immitis.

C’è poi, dopo i saluti, un post scriptum: “Il Muccini ha un libro forte, un libro di guerra, edito da Garzanti, esaurito: ‘E ora andiamo!’ Se lo leggi non credi che chi ha scritto sia un vivo. Ma come burocrati almeno oggi si muore peggio. Comunque quello è un libro terribilmente vivo.” “Narrativa” di marzo ‘59 ci consegna, fra l’altro, due chiavi importanti per la comprensione delle vicende dell’uomo e del critico. Fra la trentina di note della rubrica “Pezzi su narratori”, si trova quel giudizio su un articolo di Nino Palumbo in cui vede uno stile colmo di espressioni “cogitabonde”, “preavvisi e ostentazioni” che segnalano “ciò di cui l’autore desidera ammantarsi”. Il duro giudizio, anziché provocare le ire dello scrittore segna l’inizio di una relazione improntata a schiettezza e lealtà da entrambe le parti.[7]

L’altra chiave è offerta dall’articolo Io e il Ministro, in cui, dopo avere ricordato lo stop dato dal Ministro Bottai, nel 1941 o 1942, alla sua nomina a Provveditore agli Studi, per insufficiente fede fascista, racconta l’episodio incredibile dell’esonero da presidente di commissione agli esami di stato decretato, senza motivazione, dal Ministro Aldo Moro nel ‘58: un colpo a tradimento che andava a ferire non la sua opinabile attività di letterato e critico, ma la sua trentennale professionalità di uomo di scuola, dove la mancanza di motivazione poteva far supporre chi sa quale causa infamante. Nel ricorso presentato al Consiglio di Stato fu assistito gratuitamente dal giurista Arturo Carlo Jemolo.

La lettera di Raya ad Anelli del 2 giugno ‘60 è centrata appunto sul fatto che l’esito, a lui favorevole, del processo intentato presso il Consiglio di Stato contro il provvedimento preso nel ‘58 dal Ministro Moro, aveva “rinfocolato le ire”. Dopo aver ottenuto nel ‘59 la nomina di presidente di commissione a Catania, nel ‘60 era stato nuovamente escluso e si rivolge ad Anelli perché, se può e crede, ne faccia parola al Provveditore Muccini per essere eventualmente chiamato a sostituire un presidente rinunciatario. Cosa che non avvenne: Muccini non stava bene in salute, come Anelli scrive da L’Aquila il 12 giugno: “Muccini è in ospedale, per congestione. Il più nobile caso che possa colpire un provveditore agli studi, oggi. Poveretto: ha combattuto e scritto due libri di guerra, diversi e notevoli; ora l’avevano ridotto a non combattere ma solo ad ossequiare e servire: i barattieri della nostra categoria non lo facevano più trasferito; la persona era morta. Ma speriamo che si risani e torni l’uomo libero, scrittore soltanto.”

Raya il 16 giugno[8]: “Mi rincresce molto per Muccini”. Passa quasi un anno e: “Giorni fa pensavo a te a proposito dell’ex Provv[editore] di costà, che conobbi (in carta) per tuo tramite, che ricordavo con simpatia, ma di cui da anni non avevo più traccia, quando ricevo un suo abbon[amento] a “Narr[ativa]”, e sai da dove? Da Firenze; dove, evident[emente], s’è stabilito”. (1 giugno 1961)

In una cartolina postale da Venezia, due giorni dopo, Anelli: “Quel provveditore ammalato è a disposizione del Ministro e fa bene a starsene a Firenze. Sono contento che ti dimostra buon legame.”

MARIO MUCCINI

 MARIO MUCCINI

 Ma in un poscritto, sottolineato, annuncia: “Leggo nel giornale della morte di Muccini”.

Raya, 9 giugno 1961:

“Carissimo, Rientro da Catania e trovo la tua cart. del 3, con la triste nuova della morte di Muccini. Ne sono molto colpito. Avrei piacere di ricordarlo, magari in brevi righe, in “Narrativa”, ma non so nulla di nulla di lui. Vorresti, potresti pensarci tu? Ripeto, anche poche righe (ma, in tal caso, accanto alla citazione del giornale dove si parla della sua morte, e – dunque – per i “pezzi su narratori”). – Dei miei scritti, non m’illudo di persuaderti in tutto, e neanche in piccola parte; vorrei confessarti, soltanto, alla presenza di Muccini che non è più nella mischia, che le mie “smorfie” nascono da un assillo morale, e in particolare dalla insofferenza della bugia, comunque e dovunque essa si ammanti. La via da me scelta è ben più aspra che quella d’un movimentino tipo scapigliatura o futurismo; i posteri la chiameranno “famismo”, ma io devo pagarla cara cara, con i signori contemporanei (molti in mala fede, e qualcuno – come puoi accorgerti guardando in te stesso – in buona, buonissima fede). – Ti accludo, per cronaca, il mio ultimo art. – Affte, tanto! / tuo Gino Raya”.

Francesco Anelli, di ritorno dal Fronte nel 1919.

Francesco Anelli, di ritorno dal Fronte nel 1919.

 

“Alla presenza di Muccini”. Nel nome dello scrittore livornese si fondono le due parti di questa lettera: da una parte l’intenzione di ricordarlo sulla rivista e dall’altra la “confessione” che l’antimaiuscolaro, insofferente alla bugia “comunque e dovunque essa si ammanti”, fa all’antimaiuscolaro, refrattario alle asprezze della critica rayana, che gli aveva scritto: “Ci fu scapigliatura, ci fu futurismo; come chiameremo il fare smorfia con lingua fuori?” (3 giugno). Confessione che il critico fa dunque all’amico, ferreo censore, “alla presenza di Muccini che non è più nella mischia”: il suo sforzo – “non m’illudo di persuaderti in tutto, e neanche in piccola parte” – è rivolto ad una persona che mostra una ferma intransigenza morale, ed il riferimento a Muccini suona come chiamata di chi è ormai “fuori dalla mischia” a un ruolo di mediazione nella concordia discors fra i due, che è già in atto, e che avrebbe avuto qualche mese più tardi un’esplosione tale sul versante discors da rischiare una definitiva rottura. L’esplosione arrivò con La fame – filosofia senza maiuscole, dove si spiegava il parassitismo culturale con l’esempio di un letterato che si sarebbe guadagnato la libera docenza in letteratura italiana grazie a “roba copiazzata”. Si dava il caso, scrive Anelli dopo aver letto La fame, “che agli occhi mi viene nome di persona che conosco e incontro”, e quindi: “come far pubblica, la nostra conoscenza del libro che questo contiene, senza toccare sentimenti essenziali, l’onor proprio di chi in questo mondo reca questo nome?”.

Gorizia Rafut

Gorizia Rafut

 

Tralasciando i dettagli della disputa acuita con La fame[9], guardiamo alla sostanza di una contrastante visione critica in cui è emblematico il giudizio sull’opera di Muccini. A Raya, che vive l’esilio dalle patrie lettere a causa della sua verve dissacrante e vive anche gli attacchi alla sua professionalità di docente, piace la novella, di “eccezionale sostanza”, per la sua descrizione, pura verità, degli ambienti burocratici che trascinano alla corruttela, ma trascura i diari di guerra, soprattutto E ora andiamo!: “La letteratura della prima guerra mondiale è così ricca, da non concedere al libro del Muccini un posto di particolare, insostituibile rilievo”. Così scrive in “Narrativa” di dicembre 1961 nel Ricordo di Mario Muccini. Anelli invece, l’ex combattente di fede nazionale monarchica, sente invece l’eccezionalità del diario: “Osservo la sorte che ha avuto quel libro: ‘E ora andiamo!’ Tante cose, devono ristabilire i morti: quel ch’è degno, in quel libro, amo pensare che l’hanno scritto i morti; e per parlare di loro, altri parleranno un giorno, di quel libro”. (21 gennaio 1962).

Francesco Anelli nel 1968
Francesco Anelli nel 1968 

Ma il punto cruciale della discordia è quello che emerge nella lettera del 15 febbraio: “Ti farà piacere che alla memoria del Provveditore – autore della tua novella – abbiano dato ufficialmente la medaglia. La novella pubblicata da te non gli ha nociuto, solo perché seppe essere col dominatore del giorno. Quando lo conobbi io, quando io solo ne dicevo bene se avesse preveduto il giudizio con cui tratti il suo ‘Ora andiamo’, sarebbe rimasto male, male.” Risposta del critico (25 feb.): “Ecco il punto cruciale della critica: – Quando si formula un giudizio, bisogna pensare a “come rimane” Tizio o Caio? – Quanto più si pencola verso tale impostazione, tanto più si fa quello che fanno i politici e i vari coprofagi della cultura”.

È il principio cui Gino Raya si attenne sempre, fino alla fine dei suoi giorni e fin dalle prime recensioni che scrisse agli inizi degli anni ’30. Principio che spiega le ragioni del rifiuto di una regola dominante ancora oggi, quella del “benigno ai suoi ed ai nemici crudo”, ragioni che il critico proibito pone al vaglio della inflessibile tempra morale dell’amico. E lo fa, in quel 1962, alla presenza di Muccini, che non c’è più, perché il giudizio critico, per corrispondere il più possibile alla verità non deve cedere nemmeno al parce sepulto.

18 dic. 2013 – 22 gen. 2014                                    Paolo Anelli

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[1] Giovanni De Vergottini, nato a Parenzo, in Istria, nel 1900, era allora Preside della Facoltà di Giurisprudenza all’Università di Bologna. L’amicizia con il giurista e storico del diritto era nata negli anni ’20 a Roma dove entrambi seguivano le lezioni di Storia del prof. Pietro Fedele.

[2] L’attacco austriaco aveva provocato la morte di Enzo Petraccone (amico di Benedetto Croce), che mio padre aveva conosciuto pochi giorni prima.

[3] Letizia Svevo (lett. a me indirizzata nel maggio 1988) ricorda che mio padre nel ’58 chiese per lettera “se l’ ‘Antonio Fonda Savio’ nominato nei giornali coincideva con l’eroico Antonio Savio che gli era stato compagno in guerra”.

[4] Le vicende di guerra, vissute durante la disfatta di Caporetto e nei mesi successivi, sono descritte da F. Anelli nel suo intervento al Convegno Regionale Veneto sulla Ia Guerra Mondiale, Venezia, 5 maggio 1968, pubblicato negli Atti col titolo: La 46a batteria di bombarde nella ritirata dal fronte di Gorizia 27-31 ottobre 1917.

[5] Fonda Savio era di Pirano, in Istria. Letizia Svevo Fonda Savio mostrò grande spirito combattivo di fronte alle modalità con cui il governo italiano affrontava la questione adriatica. Dopo la morte del marito (1973), in una lettera a mio padre del 26 marzo 1977 scriveva: “Lei è fra i pochi nostri fratelli italiani che comprendono la nostra tragedia. Viviamo nella disperazione, nel terrore e nella lotta. (…) Noi abbiamo voluto, desiderato l’Italia, per lei abbiamo dato tanto, ma ora essa non ci è madre ma matrigna. E chi combatte vien tacciato di nazionalista, di fascista! Dio solo sa quanto ho sofferto per la morte di mio marito, ma ora son contenta che egli sia in pace e non sia qui a soffrire con me.”

[6] Ristampato a cura di Anita Pittoni, con la stesura di Lina Galli, che aveva raccolto il racconto di Livia.

[7] Sull’approccio tra Raya e Palumbo si veda P. Anelli, Coerenza a caro prezzo, seconda parte, nella rivista di Pino Pesce “L’Alba”, aprile 2008.

[8] L’incipit: “La tua del 12 è così saggia e deliziosa, che mi verrebbe voglia di pubblicarla fra i miei cari inediti: ma passo questo compito ai posteri”.

[9] Già da me espressi nel ricordo di Gino Raya a un anno dalla scomparsa, lettura tenuta in Roma il 2 dicembre 1988, presso la sede della “Dante Alighieri”, pubblicata da Fermenti col titolo Gino Raya. Lettere a un amico maiuscolaro. Altri particolari del carteggio ho descritto nel ricordo a vent’anni dalla morte: Coerenza a caro prezzo, prima parte, ne “L’Alba”, marzo 2008.

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